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Sulla spettanza o meno del risarcimento in caso di reiterazione di incarichi dirigenziali pubblici

22 Maggio 2024|

Prima di esaminare la recente ordinanza della Sezione Lavoro della Cassazione n. 9856 dell’11 aprile 2024, riguardante la questione del conferimento reiterato di incarichi dirigenziali a termine a dipendenti della medesima Amministrazione, occorre premettere che la Cass. S.U., con la famosa sentenza 15 marzo 2016 n. 5072, ha affermato che nel lavoro pubblico contrattualizzato in caso di abuso del ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato da parte di una pubblica amministrazione il dipendente, che abbia subito la illegittima precarizzazione del rapporto di impiego, ha diritto, fermo restando il divieto di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato posto dall’art. 36, comma 5, d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165, al risarcimento del danno previsto dalla medesima disposizione con esonero dall’onere probatorio nella misura e nei limiti di cui all’art. 32, comma 5, legge 4 novembre 2010, n. 183, e quindi nella misura pari ad un’indennità onnicomprensiva tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’art. 8 legge 15 luglio 1966, n. 604, salva la possibilità di provare un danno maggiore.

Veniamo ora al caso affrontato dalla Suprema Corte.

A una dipendente dell’Agenzia delle Entrate, a seguito della cronica carenza di personale dirigenziale, erano stati conferiti diversi incarichi dirigenziali, con quattro successivi contratti a termine, così svolgendo, per un periodo nel complesso di oltre 15 anni, mansioni dirigenziali.

A seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 37 del 2015, il rapporto dirigenziale era stato risolto dall’Amministrazione: la lavoratrice era tornata, pertanto, a svolgere le mansioni di funzionario, con conseguente riduzione del trattamento economico che aveva goduto.

Ricordiamo che la Corte Costituzionale con la tale sentenza, con riferimento alle norme che avevano conferito le funzioni di dirigente a personale di qualifica inferiore in servizio presso le Agenzie delle Entrate, aveva affermato che le reiterate delibere di proroga del termine finale avevano di fatto consentito, negli anni, di utilizzare uno strumento pensato per situazioni peculiari quale metodo ordinario per la copertura di posizioni dirigenziali vacanti, consentendo quindi l’attribuzione di incarichi dirigenziali senza concorso, senza criteri, e con un esercizio di discrezionalità che sfugge ai parametri ed ai limiti del giudice amministrativo.

La lavoratrice, quindi, aveva adito il Tribunale, deducendo:

–  l’illegittimità, ai sensi del d.lgs. n. 368 del 2001, del termine apposto ai contratti dirigenziali(in quanto privi di causale, senza soluzione di continuità e durati nel complesso oltre 36 mesi), e il ricorso abusivo al contratto a termine: chiedeva, pertanto, la condanna dell’Agenzia delle Entrate al risarcimento del danno ex art. 36, del d.lgs. n. 165 del 2001, quantificato in 15 mensilità della retribuzione globale di fatto percepita al momento della cessazione del rapporto dirigenziale(oltre le ulteriori mensilità maturate fino alla data della sentenza);

– di aver subito, inoltre, un danno all’immagine, all’interno e all’esterno dell’Agenzia delle Entrate, a seguito della cessazione del rapporto dirigenziale( chiedeva, pertanto, il risarcimento del danno quantificato in euro 15.000).

Il Tribunale rigettava la domanda.

Per il Tribunale, il rapporto dirigenziale era escluso dall’applicazione dell’art. 10 del d.lgs. n. 368 del 2001, e la fattispecie non era riferibile ai lavoratori precari di cui all’Accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE, atteso che la lavoratrice era dipendente a tempo pieno dell’Agenzia delle Entrate, e il conferimento degli incarichi dirigenziali non aveva comportato la cessazione del rapporto di lavoro.

Non si verteva, inoltre per il Tribunale, in ipotesi di abuso di contratti a termine, ma piuttosto di svolgimento di mansioni superiori, in relazione al quale andava vagliata la domanda risarcitoria e, ai sensi dell’art. 52, del d.lgs. n. 165 del 2001, non vi era diritto al superiore inquadramento, residuando solo il diritto alla retribuzione corrispondente alle mansioni effettivamente svolte, che nella specie era stata corrisposta.

Non era, infine, sempre per il giudice di primo grado, fondata la domanda di risarcimento del danno all’immagine, anch’essa formulata dalla lavoratrice, atteso che la cessazione dell’incarico dirigenziale era stata conseguenza obbligata della sentenza n. 37 del 2015 della Corte costituzionale.

La lavoratrice, successivamente, proponeva appello avverso la sentenza del Tribunale, a lei, come visto, non favorevole.

La Corte d’Appello respingeva l’appello.

Il giudice di secondo grado precisava:

– che la normativa europea (direttiva 1999/70/CE e quella nazionale, d.lgs. n. 368 del 2001), non trovano applicazione nel caso di specie;

– che la precarizzazione subita dalla lavoratrice aveva riguardato, in ipotesi, solo il trattamento retributivo a lei corrisposto per alcuni anni, tornato poi ad essere quello di funzionario, e non aveva investito la stabilità lavorativa tutelata dall’Accordo quadro;

–  che l’attribuzione delle mansioni dirigenziali a tempo determinato aveva comportato di fatto lo svolgimento di mansioni superiori;

– che, anche considerando illegittima l’assegnazione a mansioni superiori, non si ravvisava quale danno risarcibile avesse subito la lavoratrice;

– che la domanda di risarcimento del danno, ex art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001 andava respinta;

– che anche la domanda risarcitoria per il danno all’immagine ex art. 2087, cod. civ. (proposta in relazione alla circostanza che i funzionari destinatari degli incarichi dirigenziali erano stati poi oggetto di una campagna mediatica negativa) non poteva trovare accoglimento: non era, difatti, ravvisabile in capo al datore di lavoro un obbligo di protezione, ovvero di difesa dei propri dipendenti rispetto a comportamenti posti in essere al di fuori dell’ambiente di lavoro e da soggetti terzi del tutto estranei al rapporto di lavoro, poiché l’obbligo di sicurezza è circoscritto all’esercizio dell’impresa, e il datore di lavoro non può che rispondere, ex art. 2087, cod. civ., di atti o comportamenti attivi o omissivi posti in essere da lui medesimo o dai suoi preposti.

La lavoratrice ha, quindi, proposto ricorso per Cassazione, sostenendo, tra l’altro:

– che la successione dei contratti di lavoro dirigenziale a termine violava la normativa comunitaria e nazionale in materia di lavoro a tempo determinato;

– che vi era stato un ricorso abusivo alla successione di contratti a termine, da parte dell’Agenzia, per sopperire ad una stabile carenza di personale dirigenziale conseguente a situazioni ordinarie, in quanto correlate alla cronaca e prevedibile mancanza di risorse derivante dalla messa in quiescenza dei dirigenti di ruolo e dall’impossibilità di far fronte alla copertura delle posizioni vacanti a causa del mancato espletamento delle necessarie procedure concorsuali;

– che il rapporto di lavoro dirigenziale pubblico costituisce un autonomo rapporto di lavoro, distinto dal sottostante rapporto di pubblico impiego: pertanto, non poteva condividersi l’assunto della Corte d’Appello in ordine alla mancanza di una situazione di precarietà.

Con la citata ordinanza n. 9856/2024, la Cassazione ha rigettato il ricorso della lavoratrice, ribadendo che il conferimento di un incarico dirigenziale a termine si innesta su un rapporto di lavoro subordinato già esistente ed in quanto equiparabile all’ipotesi della reggenza, o dell’esercizio di mansioni superiori, non determina la costituzione di un rapporto dirigenziale a termine assimilabile a quello con i soggetti non appartenenti ai ruoli dirigenziali della P.A. ex art. 19, comma 6, del d.lgs. n. 165 del 2001 (Cass, sentenza n. 14814 del 2020, Cass., ordinanza n. 2397 del 2023).

Pertanto, non trova applicazione, per il Collegio, la disciplina nazionale ed eurounitaria sui contratti a termine, né è ravvisabile fattispecie di abusiva reiterazione di contratti a termine.

Nella pronuncia de qua, si legge che, anche a non voler dubitare della illegittimità dei reiterati incarichi dirigenziali a termine (illegittimità che, nello specifico, nessuno mette in discussione e che è stata acclarata da Corte costituzionale n. 37 del 2015), la stessa è fonte di responsabilità risarcitoria ma il danno deve essere allegato e provato, non soccorrendo l’agevolazione di cui a Cass., Sez. Un., n. 5072/2016.

Né è dirimente, evidenziano, altresì, i giudici di legittimità, quanto statuito dal Consiglio di Stato nella sentenza n. 10627 del 2023, richiamata dalla lavoratrice, riguardante l’illegittimo esercizio delle funzioni amministrative in relazione ad atti di macro-organizzazione(organizzazione e gestione degli incarichi dirigenziali) dell’Agenzia delle Entrate, rispetto alla posizione di interesse legittimo riconosciuta in capo ad un’organizzazione sindacale, vicenda del tutto diversa rispetto a quella in esame, ove viene in rilievo il singolo rapporto di lavoro pubblico contrattualizzato e l’agire dell’Amministrazione in base alla capacità e ai poteri propri del datore di lavoro privato, al di fuori dall’ambito dei provvedimenti amministrativi autoritativi.

Per gli Ermellini, correttamente la Corte d’Appello aveva respinto le domande risarcitorie formulate per l’abusiva reiterazione di contratti a termine, proposte a seguito della cessazione dell’incarico dirigenziale a termine, pur se già prorogato, disposta dall’Agenzia delle Entrate, all’esito dell’annullamento del regolamento di organizzazione, da parte del giudice amministrativo, e della sentenza della Corte costituzionale n. 37 del 2015.

La Corte d’Appello, si legge sempre nell’ordinanza che qui si annota, correttamente aveva ritenuto insussistente il presupposto per l’agevolazione probatoria ai fini del risarcimento ex art. 32 della l. n. 183/2010, in ragione della mancanza di precarietà del rapporto di lavoro, a cui si aggiungevano gli incarichi dirigenziali, facente capo alla lavoratrice.

La stessa era titolare di rapporto di lavoro a tempo indeterminato come funzionario, che proseguiva alla cessazione degli incarichi dirigenziali, in ordine ai quali peraltro non era contestato la corresponsione del trattamento retributivo corrispondente alle superiori mansioni svolte.

I giudici di legittimità, con riferimento alla domanda risarcitoria per il danno all’immagine ex art. 2087, cod. civ., proposta, come detto, in relazione alla circostanza che i funzionari destinatari degli incarichi dirigenziali erano stati oggetto di una campagna mediatica negativa, dopo aver rimarcato che l’art. 2087, cod. civ., non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva essendone elemento costitutivo la colpa, quale difetto di diligenza nella predisposizione delle misure idonee a prevenire ragioni di danno per il lavoratore, precisano, infine, che la Corte d’Appello aveva correttamente rilevato che la vicenda mediatica, intervenuta successivamente alla cessazione del rapporto dirigenziale per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 37 del 2015, era esterna al rapporto di lavoro e posta in essere da soggetti terzi estranei al rapporto di lavoro, di talché non era ravvisabile in capo al datore di lavoro un obbligo di protezione riconducibile all’art. 2087, cod. civ.

Dionisio Serra, cultore di diritto del lavoro nell’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”

Visualizza il documento: Cass., ordinanza 11 aprile 2024, n. 9856

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