Show Info

Nel gioco delle parti, il giudice può ridefinire le regole e fare in modo che il contratto collettivo faccia il suo ingresso in aula?

14 Novembre 2024|

Nella sentenza oggetto di questo commento (19 agosto 2024, n. 22907) la Cassazione ha affrontato un’annosa questione sulla quale, in effetti, insiste un dibattito mai sopito all’interno aule giudiziarie lavoristiche. Puntualmente, infatti, ci si interroga sulla necessità di produrre il contratto collettivo ad opera del ricorrente o del resistente che intende avvalersene nella controversia e sulla possibilità che il giudice del lavoro avrebbe, in mancanza dello stesso, di acquisirlo ex officio.

Ciò, invero, accade quando il contratto collettivo appare indispensabile ai fini della decisione da prendere in giudizio oppure comunque idoneo a superare l’incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione.

Prima di addentrarci all’interno della questione, però, occorre senza dubbio muovere dall’impianto codicistico in materia di ammissione dei mezzi istruttori.

Bisogna osservare che ai sensi dell’art. 414 n. 5 c.p.c. e dell’art. 416, ultimo comma, c.p.c. tanto il ricorrente quanto il resistente devono indicare nel loro primo atto di giudizio, ossia in ricorso e nella memoria difensiva, i mezzi di prova di cui intendano avvalersi ed in particolare i documenti che offrono in comunicazione e depositano.

Mentre appare chiaro dalla littera legis del 416 c.p.c. che l’indicazione dei mezzi di prova richiesti per il resistente è stabilita entro questo termine a pena di decadenza, si riesce a desumere che per il ricorrente valga la medesima conseguenza soltanto leggendo l’art. 414 n. 5 c.p.c. in combinato disposto con il comma 5 dell’art. 420 c.p.c., il quale consente alle parti di dedurre direttamente all’udienza di discussione soltanto i mezzi di prova ‘nuovi’, e quindi soltanto quelli che non ha potuto proporre prima negli atti introduttivi. e non anche quelli che all’epoca erano producibili e che invece non ha prodotto.

Da quanto appena esposto può agevolmente concludersi che nel rito del lavoro, quindi, differentemente dal rito civile ordinario, già nella prima udienza ha inizio la fase istruttoria del giudizio. Essa potrebbe proseguire, in effetti, fino all’udienza di discussione solamente, però, qualora la produzione di altri documenti sia giustificata dal ‘tempo della loro formazione’ o dallo ‘evolversi della vicenda processuale’ successivamente al ricorso e alla memoria di costituzione (Cass., 5 novembre 2019, n. 28439) oppure dal fatto che essi siano ‘sopravvenuti’ nella disponibilità delle parti.

Ad ogni modo, poiché il processo del lavoro si pone a mezza via tra il processo civile, basato sul principio dispositivo (secondo il quale il giudice deve decidere guardando a quanto allegato e provato dalle parti), ed il processo penale, che si fonda sul principio di ricerca della verità materiale, il codice stabilisce pure, ai sensi dell’art. 421 c.p.c., che il giudice abbia poteri istruttori ampissimi e che quindi possa assumere una prova senza richiesta di parte oppure, ancora, procedervi quand’anche le parti siano decadute dalla possibilità di richiederla (Cass., 10 dicembre 2008, n. 29006).

Per il vero, tali poteri sono stati attribuiti al giudice del lavoro anche al fine di attenuare il rigido riparto dell’onere della prova ex art. 2697 c.c. il quale, calato in tale particolare giudizio, finirebbe per essere troppo gravoso per il ricorrente (A. Vallebona, Istituzioni di diritto del lavoro, Giappichelli editore, 2023, 823).

Quest’ultimo, infatti, nella maggior parte dei casi è un lavoratore costretto ad attivare il processo per rivendicare i suoi diritti rispetto alla parte datoriale e quindi, verosimilmente, si troverebbe in difficoltà a provare i fatti costitutivi della sua pretesa (si pensi alla possibilità che questi ha di accedere a documenti interni all’azienda o comunque al luogo di lavoro, oppure ancora alla difficoltà di reperimento di testimoni in grado di poter corroborare quanto da lui esposto, poiché essi sarebbero perlopiù colleghi di lavoro, spesso maldisposti nel caso in cui il loro rapporto di lavoro sia ancora in essere presso il datore convenuto).

E’ anche per questo motivo che è un vecchio approdo delle Sezioni Unite della Cassazione quello secondo cui «il giudice ove reputi insufficienti le prove già acquisite, non può limitarsi e fare meccanica applicazione della regola formale di giudizio fondata sull’onere della prova, ma ha il potere-dovere di provvedere d’ufficio agli atti istruttori sollecitati da tale materiale ed idonei a superare l’incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione, indipendentemente dal verificarsi di preclusioni o decadenze in danno delle parti» (Cass., sez. un., 17 giugno 2004, n. 11353 e Cass., sez. un., 23 gennaio 2002, n. 761).

Non va neanche dimenticato che, prima ancora di conferire tali poteri officiosi al giudice ex art. 421 c.p.c., il codice al citato art. 420 c.p.c. permette lui di ammettere nuovi mezzi istruttori nell’ambito della discussione orale della causa solo qualora ritenga che questi siano “rilevanti” ai fini del decidere, e dunque gli riconosce un certo dominio nella fase istruttoria già a prescindere da essi. Vale la pena pure di precisare che il giudice del lavoro, a differenza delle parti che – come già spiegato – possono richiedere l’ammissione dei mezzi di prova fino alla prima udienza, non incontra alcuna barriera processuale preclusiva e perciò può ammettere nuove prove d’ufficio in ogni momento. (F.P. Luiso, Diritto processuale civile, IV, I processi speciali, Giuffrè, 2024, 56).

Facendo poi un salto in avanti nel giudizio di secondo grado, deve osservarsi che con riferimento a tale mezzo di impugnazione il codice non prevede le stesse norme che impongono l’indicazione dei mezzi di prova nell’atto introduttivo d’appello a pena di decadenza. Ciò perché l’art. 437 c.p.c. già prevede in generale che, ad eccezione del giuramento decisorio, non sono ammissibili mezzi di prova ‘nuovi’ in appello rispetto a quelli assunti in primo grado a meno che il collegio, anche d’ufficio, li ritenga “indispensabili” ai fini della decisione della causa.

Sul tema dell’ammissione delle prove d’ufficio è, comprensibilmente, già da tempo intervenuta la giurisprudenza di legittimità la quale ha chiarito il dato normativo e, parallelamente, ha apportato ad esso alcuni utili correttivi al fine di restituirvi coerenza.

La Cassazione ha infatti spiegato che il giudice può superare le decadenze in cui siano incorse le parti attraverso la produzione tardiva di materiale probatorio ed acquisire lo stesso oppure decidere autonomamente di assumere atti istruttori nuovi sollecitati dalle prove già raccolte esercitando, appunto, questo potere officioso integrativo sia in Tribunale che in Corte d’Appello, a condizione, però, che il suo intervento riguardi circostanze ‘decisive’ e comunque già ‘allegate’ dalle parti oppure ‘emerse’ dagli atti di causa (Cass., n. 28439/2019, cit.).

È possibile, cioè, che il giudice superi le preclusioni formatesi per le parti del giudizio esercitando il potere riconosciutogli ai sensi degli artt. 421 e 437 c.p.c. solo laddove la documentazione tardiva che voglia acquisire o le prove che intende assumere siano ‘utili a dissipare ogni dubbio sui fatti controversi’ e non riguardino ‘fatti nuovi’ (cc.dd. “nova”), perché il potere di acquisizione delle prove d’ufficio non può certo confliggere con la terzietà del giudice rispetto al potere dispositivo delle parti. (F.P. Luiso, op. cit., 54).

In epoca risalente, invero, la Cassazione, aveva tentato di superare le rigide statuizioni codicistiche imposte alle parti pronunciandosi in materia di produzione documentale.

Procedendo con ordine, secondo un vecchio orientamento i documenti, in quanto prove precostituite, ben potevano essere prodotti fino all’udienza di discussione, anche in appello, senza incorrere nelle preclusioni di cui agli artt. 414, 416 e 437 c.p.c. Queste ultime norme, quindi, sarebbero state ostative solo all’ingresso di prove costituende, la cui acquisizione, a differenza di quella dei documenti, si sarebbe di certo posta in contrasto con le ‘esigenze di concentrazione ed immediatezza’ caratterizzanti il processo del lavoro.

Questa ricostruzione è stata poi superata dalla giurisprudenza successiva (Cass., sez. un., 20 aprile 2005, n. 8202) la quale ha osservato come anche i documenti, nonostante siano prove precostituite, rientrino comunque tra i mezzi di prova e pertanto valgono anche per essi le preclusioni previste dal codice. Inoltre, è stato pure considerato che il bisogno di definire in maniera celere il processo del lavoro viene già sacrificato attraverso l’assunzione della controprova, e cioè al fine di rispettare altro principio cardine di ogni giudizio che è quello del ‘contraddittorio’. Dunque, alla stessa maniera, non si può non ammettere un’assunzione di documenti che potrebbero essere necessari ai fini della decisione della causa al solo fine di evitare di intaccare il rigido sistema di preclusioni previsto dal codice in tema di allegazione probatoria. Nel bilanciamento tra ‘ragionevole durata del processo’, ‘diritto di difesa delle parti’ e ‘principio di ricerca della verità materiale’, infatti, prevalgono questi ultimi due (Cass., sez. un., n. 8202/2005, cit.).

Le Sezioni Unite della Cassazione, pertanto, hanno finito per ammettere la produzione tardiva di documenti nel caso in cui questi abbiano quantomeno ad oggetto circostanze già allegate negli atti introduttivi (Cass., sez. un., n. 8202/2005, cit.) ed hanno così aperto la strada a tutti gli altri successivi percorsi giurisprudenziali che si sono poi formati con riferimento ad altri mezzi di prova richiesti intempestivamente.

Superando il tema della prova documentale, deve poi rilevarsi che con riferimento al giudizio di appello ci si è interrogati, invece, su quale sia la prova “indispensabile” ammissibile nel giudizio di gravame ai sensi dell’art. 345 c. 3 c.p.c.

Anzitutto, si è affermato che la stessa debba essere valutata come tale in rapporto allo sviluppo assunto dall’intero processo, comprensivo della sentenza di primo grado e di ciò che questa afferma a commento delle risultanze istruttorie. La disposizione, infatti, avrebbe il significato di introdurre in appello dei nuovi mezzi di prova nelle ipotesi in cui si è creata una separazione inaccettabile tra la verità processuale emersa tempestivamente nel primo grado di giudizio e la realtà materiale documentabile in appello (Cass., sez. un. 4 maggio 2017, n. 10790).

In secondo luogo si è osservato che, mentre in passato per prova nuova indispensabile si intendeva quella non solo ‘idonea a provare i fatti di causa’ ma anche quella ‘senza la quale era impossibile assolvere il proprio onere probatorio’, oggi, secondo la giurisprudenza più recente, per essa deve intendersi la prova che appare ‘idonea a sovvertire la pronuncia di primo grado’ oppure quella che ‘da sola’, a prescindere dagli altri strumenti istruttori, è ‘sufficiente per la dimostrazione del fatto controverso’ e infine quella ‘idonea a colmare le lacune del materiale istruttorio raccolto nel primo grado di giudizio’ (Cass., sez. un., n. 10790/2017, cit.).

Essa, quindi, sarebbe quella che consente di dissipare ogni incertezza sulla ricostruzione fattuale assunta in primo grado, smentendola o confermandola ma senza lasciare margini di dubbio, oppure quella che permette di provare ciò che era rimasto indimostrato o non sufficientemente dimostrato, e ciò aldilà del fatto che la parte interessata sia intercorsa o no per propria negligenza nelle preclusioni istruttorie del primo grado (Cass., sez. un., n. 10790/2017, cit.).

Non deve infatti essere accolta una nozione di indispensabilità ‘ristretta’ secondo la quale sarebbe indispensabile solo quella prova che ‘non era utile e necessaria nel contraddittorio in primo grado’ ma che ‘lo è divenuta dopo, in secondo grado, per effetto delle valutazioni sulle risultanze istruttorie di primo grado esposte nella sentenza appellata’, ma si deve accogliere una sua definizione più ampia, che sia comprensiva di quelle ‘prove che, per il loro spessore contenutistico, abbiano influenza causale più incisiva rispetto alle prove già rilevanti ai fini della decisione della controversia’ poiché esse si rivelano idonee a dissipare un perdurante stato di dubbio sui fatti controversi (Cass., sez. un.,  n. 10790/2017,ult. cit.).

Sebbene la prima ricostruzione abbia il pregio di porsi in armonia con l’esigenza di salvaguardare il sistema di preclusioni istruttorie, rispetto alla terzietà del giudice, alla regola di giudizio dell’onere della prova ex art. 2697 c.c. ed infine alla ragionevole durata del processo, aderire ad essa comporterebbe il sacrificio della ricerca della verità materiale e del diritto di difesa della persona, valori preminenti nel giudizio del lavoro. Pertanto, tale prima tesi va necessariamente respinta in favore della seconda (ancora, Cass., sez. un., n. 10790/2017, cit.).

Venendo ora al caso di specie, esso ha interessato una pronuncia della Corte d’Appello di Bologna la quale, nell’ annullare un avviso d’addebito, non aveva ammesso in giudizio quel contratto collettivo individuato tardivamente dall’INPS, in base al quale i suoi ispettori avrebbero proceduto ai rilievi di propria competenza.

Questi infatti non erano stati indicati e allegati nella sua memoria costitutiva, ma erano stati prodotti successivamente nelle note conclusive depositate nel primo grado di giudizio e, nuovamente, in appello.

Il giudice dell’appello aveva ritenuto poi di non ammetterli comunque in giudizio considerato che essi si sostanziavano in una fonte collettiva di natura privatistica, e quindi non potevano reputarsi ‘prove sopravvenute nella disponibilità delle parti’ e, a dire la verità, neanche ‘prove richieste dall’evolversi della vicenda processuale’, dal momento che rappresentavano il presupposto in base al quale era stato effettuato l’accertamento ispettivo che aveva dato origine all’atto in contestazione.

La sentenza è stata quindi impugnata in Cassazione perché incorsa nella violazione di legge derivante dal combinato disposto degli artt. 416, 421 e 437, comma 2, c.p.c., considerato che il contratto collettivo non era stato acquisito e utilizzato ai fini del decidere.

Il motivo è apparso fondato, con conseguente accoglimento del ricorso, poiché il c.d. contratto leader, ossia quello stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nel settore merceologico di appartenenza della parte datoriale, è parso alla Suprema Corte indispensabile ai fini della decisione di quel giudizio perché era il solo elemento probatorio che avrebbe consentito di individuare correttamente la retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi previdenziali nell’ambito delle società cooperative (c.d. minimale contributivo).

La preclusione istruttoria in cui l’ente previdenziale era incorso per non aver prodotto tale documento unitamente alla sua memoria costitutiva nel giudizio di primo grado ex art. 416, ultimo comma, c.p.c., dunque, non avrebbe dovuto essere ostativa all’ammissione del mezzo istruttorio e, anzi, doveva essere superata dal giudice attraverso l’esercizio del suo potere officioso già in primo grado ai sensi dell’art. 421 c.p.c..

Come chiarito in precedenza, difatti, non è possibile che il processo del lavoro sia definito con una semplicistica applicazione della regola di riparto dell’onere probatorio ex art. 2697 c.c., e quindi basandosi unicamente sul difetto di allegazione di una delle parti, quando l’organo decidente può reperire, sulla base dei ‘fatti di causa già conosciuti in giudizio’, delle nuove prove in via officiosa.

Ciò in conformità, appunto, alle statuizioni più risalenti della Suprema Corte in materia di produzione documentale tardiva.

Né tantomeno si può pensare di rinunciare all’accertamento della verità processuale al fine di punire la negligenza della parte che non ha introdotto prima il contratto collettivo.

Di regola, infatti, è la parte interessata a dover fornire al giudice la prova dell’esistenza della regola contrattuale mediante produzione documentale perché questi, per il principio “iura novit curia”, è tenuto alla sola conoscenza della legge ed, al contrario, i contratti collettivi non possono dirsi vere e proprie fonti del diritto dal momento che non producono norme giuridiche (F.P. Luiso, op. ult.cit., 61).

Ad ogni modo, laddove la parte non ottemperi a tale onere, il giudice deve procedere con la sua acquisizione d’ufficio poiché la stessa non comporta «una supplenza ad una carenza probatoria su fatti costitutivi della domanda» bensì «il superamento di una incertezza su un fatto indispensabile ai fini del decidere» (Cass., 14 marzo 2017, n. 6610).

Marianna Dicosta, funzionario addetto all’Ufficio per il Processo

Visualizza il documento: Cass., 19 agosto 2024, n. 22907

Scarica il commento in PDF

L'articolo Nel gioco delle parti, il giudice può ridefinire le regole e fare in modo che il contratto collettivo faccia il suo ingresso in aula? sembra essere il primo su Rivista Labor - Pacini Giuridica.