La Corte di cassazione precisa il sottile distinguo tra licenziamento collettivo e individuale, individuando il regime di tutela applicabile
14 Luglio 2024|Con la pronuncia in commento (ordinanza n. 6580 del 12 marzo 2024) , la Suprema Corte affronta due rilevanti questioni in materia di licenziamento collettivo.
Nel caso di specie, una società aveva licenziato sette lavoratori in tre siti che, ad avviso del lavoratore ricorrente in appello, dovevano considerarsi un’unica unità produttiva, atteso che una di esse costituiva un deposito privo di autonomia e le altre due erano prive di direttore o di personale con qualifica direttiva; aderendo alla prospettazione del lavoratore, la Corte d’appello aveva ritenuto inefficace il licenziamento per mancata attivazione della procedura di licenziamento collettivo ai sensi degli artt. 4 e 24 l. 23 luglio 1991, n. 223.
La società aveva formulato motivo di ricorso per cassazione inerente alla definizione di unità produttiva, erroneamente identificata (a dire della ricorrente) dalla Corte di merito, ma esso è stato dichiarato inammissibile dalla Suprema Corte in quanto tendente a ottenere una rivisitazione del merito della vicenda, in quanto tale preclusa al Giudice di legittimità.
Tuttavia, risulta di interesse il passaggio della motivazione, ove si legge che:
«7. […] la disposizione di cui all’art. 24 legge n. 223/1991, con l’utilizzo del termine “impresa”, ancor prima di quello di “unità produttiva”, ai fini dell’applicazione della speciale normativa sui licenziamenti collettivi, è espressione della volontà del legislatore di mantenere distinta e separata tale fattispecie da quella dei licenziamenti individuali; pertanto, il requisito dimensionale va valutato con riguardo alla globalità dell’impresa»;
«8. la distinzione tra le due fattispecie (licenziamento collettivo e licenziamento individuale, anche plurimo) è ben delineata e trova fondamento in ragione dei diversi interessi tutelati, nonché delle distinte esigenze che le due tipologie di licenziamento disciplinano; i licenziamenti collettivi seguono l’obiettivo non solo di tutelare il lavoratore nella sua individualità, ma anche di adottare misure atte ad eliminare o ridurre l’impatto sociale del provvedimento intimato al complesso dei lavoratori, sicché la disciplina prevista dalla legge n. 223/1991 mira alla tutela di un interesse collettivo, o più precisamente alla tutela dell’occupazione, la quale esige, dunque, procedure più stringenti rispetto a quelle previste per il recesso individuale»;
«9.l’intensità dell’impatto sociale del provvedimento espulsivo collettivo assume un rilievo tale da ritenersi meritevole di un’autonoma e peculiare disciplina, e presuppone un controllo preventivo del sindacato, necessitando dunque di una verifica delle scelte del datore di lavoro e della legittimità della procedura sia ex ante che ex post; e lo stesso ordinamento dell’Unione europea ha ravvisato l’esigenza di uniformare le disposizioni in ambito di licenziamenti collettivi tra gli Stati membri, in ragione della pregnanza degli interessi che vengono coinvolti in siffatte procedure, nonché al fine di calmierare e di evitare situazioni di crisi sociali derivanti dal numero dei lavoratori interessati dal provvedimento».
Infatti, individuare la differenza tra le due fattispecie, del licenziamento collettivo e del licenziamento individuale, è importante non solo per esigenze di speculazione teorica, ma anche per rilevanti precipitati applicativi (R. Del Punta, I licenziamenti collettivi, in M. Papaleoni, R. Del Punta, M. Mariani, La nuova cassa integrazione guadagni e la mobilità, Cedam, Padova, 1993, p. 278 ss.).
In primo luogo, e in ottica sistematica, cambia il requisito dimensionale: l’art. 7, c. 1, L. n. 604/1966 fa riferimento al «datore di lavoro avente i requisiti dimensionali di cui all’articolo 18, ottavo comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300» e, cioè, l’imprenditore o non imprenditore che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo occupa più di quindici lavoratori o più di cinque se si tratta di imprenditore agricolo, oppure che occupi lo stesso numero di lavoratori in tutte le unità produttive dello stesso Comune, anche se singolarmente le singole unità sarebbero sprovviste del requisito; in ogni caso, sono ricompresi i datori che impiegano più di sessanta dipendenti in totale.
Diversamente, l’art. 24, c. 1, l. 23 luglio 1991, n. 223 si riferisce ad «almeno cinque licenziamenti, nell’arco di centoventi giorni, in ciascuna unità produttiva, o in più unità produttive nell’ambito del territorio di una stessa provincia».
Secondariamente, cambia anche la procedura.
L’art. 7 l. 15 luglio 1966, n. 604, prevede che il datore debba effettuare una comunicazione alla Direzione territoriale del lavoro del luogo in cui il lavoratore effettua la prestazione, allo scopo di esperire un tentativo di conciliazione ai sensi dell’art. 410 c.p.c. Per converso, i commi da 4 a 12 dell’art. 4 l. 23 luglio 1991, n. 223, richiamati dall’art. 24 della stessa legge, disegnano una bipartizione tra fase sindacale e amministrativa.
È diversa anche la misura degli ammortizzatori sociali.
L’originaria stesura dell’art. 5, c. 4, l. n. 223/1991 contemplava l’indennità di mobilità, che è stata abrogata dalla L. n. 92/2012 e assorbita nella Assicurazione sociale per l’impiego (ASpI). Più in dettaglio, l’art. 2, c. 31, l. n. 92/2012 prevede un c.d. ticket di licenziamento “pari al 41 per cento del massimale mensile di ASpI per ogni dodici mesi di anzianità aziendale negli ultimi tre anni”.
Nell’ipotesi di licenziamento collettivo, invece, la disciplina è la seguente: si applica l’art. 2, c. 35, L. n. 92/2012 ai sensi del quale, nei casi di licenziamento collettivo in cui la dichiarazione di eccedenza del personale non abbia formato oggetto di accordo sindacale, il contributo dovuto dal datore è moltiplicato per tre volte.
Sulla misura del contributo, come ricorda anche la circolare INPS 19.03.2020, n. 40, è successivamente intervenuta anche la L. n. 205/2017, che, all’art. 1, c. 137, ha innalzato l’aliquota dovuta dal datore di lavoro rientrante in “area CIGS” ai sensi dell’art. 23 D. Lgs. n. 148/2015 all’82% del massimale mensile, dunque pari al doppio del ticket di licenziamento previsto dal comma 31 dell’art. 2 L. n. 92/2012.
Ancora, sussistono differenze quanto all’adempimento dell’obbligo di repêchage, ossia obbligo del datore, qualora ciò sia possibile, di reimpiegare il lavoratore da licenziare in mansioni diverse da quelle svolte in precedenza (Cass., 7 gennaio 2005, n. 239).
Esso è stato, tradizionalmente, inteso quale extrema ratio da rispettare ai fini della legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo di cui all’art. 3 L. n. 604/1966 (A. Carbone, Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e repêchage. Profili in punto di onere della prova e spunti critici, in www.questionegiustizia.it). Ci si potrebbe interrogare, dunque, circa la sua estensibilità al licenziamento collettivo.
In assenza di uno specifico dettato normativo, la giurisprudenza ha tradizionalmente argomentato in senso negativo, finanche nell’ipotesi in cui il datore di lavoro, in sede di accordo sindacale, abbia assunto l’impegno di favorire la ricollocazione dei dipendenti coinvolti nella procedura. Si può richiamare, sul punto, Corte d’appello di Milano, 20 gennaio 2017, n. 131, secondo cui: «Deve escludersi che la violazione dell’impegno assunto contrattualmente dal datore di lavoro, nell’ambito di una procedura di licenziamento collettivo, di ricollocare i lavori licenziati presso futuri ed eventuali posti di lavoro, possa integrare gli estremi della violazione dell’obbligo di repêchage con conseguente invalidità dell’intimato licenziamento. La natura giuridica dell’impegno assunto viene così individuata in un’obbligazione meramente contrattuale, la cui violazione può comportare esclusivamente conseguenze di natura risarcitoria, senza poter incidere in alcun modo sulla legittimità del licenziamento».
D’altronde, si potrebbe aggiungere che, nel caso di specie, il datore di lavoro intende riorganizzare la propria attività, e sembra eccessivo sanzionare con l’invalidità l’inadempimento di un obbligo assunto in sede contrattuale e relativo proprio a quella riorganizzazione che spinge il datore stesso a licenziare (V. Forcolin, Cos’è l’obbligo di repêchage e cosa dice la giurisprudenza, in www.toffolettodeluca.it).
In effetti, a sostegno di tale affermazione, si può richiamare la giurisprudenza in tema di licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, connotata dal dato comune per cui, pur garantendo il repêchage, non si impone mai al datore di lavoro uno sforzo irragionevole sul piano organizzativo, garantendo sempre «la ragionevolezza dell’operazione, che non deve comportare rilevanti modifiche organizzative ovvero ampliamenti di organico o innovazioni strutturali non volute dall’imprenditore» (Cass., 3 dicembre 2019, n. 31521).
A conferma ulteriore, nell’ipotesi in cui l’azienda sia parte di un gruppo di imprese, «non può pretendersi dal datore di lavoro di dimostrare anche l’impossibilità di occupare il lavoratore presso altre società in qualche modo da lui controllate (ma costituenti soggetti diversi)» (Cass. n. 12645/2003; Corte d’Appello Milano, Sez. lav., 1° settembre 2010).
Infine, il termine decadenziale di sessanta giorni, previsto per l’impugnazione del licenziamento dall’art. 6 L. n. 604/1966, si applica solo ai licenziamenti individuali.
Nel caso di specie, con accertamento di fatto insindacabile in sede di legittimità, è stato constatato il difetto di autonomia produttiva dei siti menzionati, in base a elementi probatori riferiti agli assetti organizzativi e direttivi, debitamente valorizzati nella motivazione, con conseguente necessaria applicazione della specifica procedura prescritta per i licenziamenti collettivi con riguardo alla riduzione del personale contestualmente programmata dall’impresa considerata nel suo insieme, traendone quindi le conseguenze conformi alla giurisprudenza di legittimità citata.
Nella seconda parte della sentenza, la Suprema Corte statuisce la fondatezza del quarto motivo di ricorso, atteso che la Corte di merito non ha tenuto conto del regime di tutela del lavoratore applicabile ratione temporis, ossia delle modifiche all’art. 18 l. n. 300/1970, ad opera della l. n. 92/2012.
La giurisprudenza di legittimità, infatti, è pervenuta, in tema di licenziamenti collettivi, alla distinzione tra vizi sostanziali, che determinano la c.d. tutela reintegratoria attenuata, e vizi formali, che determinano la c.d. tutela indennitaria forte.
Nel caso di omissione della comunicazione iniziale, che è fondamentale ai fini del controllo sindacale sull’intera procedura, la sanzione predisposta dall’ordinamento non ha carattere reale e non prevede la reintegrazione del lavoratore in caso di licenziamento, in quanto l’art. 1, c. 45, L. n. 92/2012 ha introdotto la c.d. efficacia “sanante” degli accordi collettivi: l’avvenuta stipulazione degli stessi impedisce la configurazione di qualsiasi forma di invalidità, in quanto, nonostante sia stato omesso il primo contatto con i sindacati, lo scopo della comunicazione iniziale è stato comunque raggiunto, giacché gli stessi hanno partecipato attivamente alla procedura e hanno stipulato il contratto aziendale.
Diversamente, in caso di omissione della comunicazione finale, la nuova versione dell’art. 4, c. 9, L. 23 luglio 1991, n. 223, prevede che tutti i licenziamenti debbano essere irrogati entro il termine di centoventi giorni dalla data del contratto collettivo; inoltre, contempla un ulteriore termine di sette giorni tra l’irrogazione dei licenziamenti e la trasmissione della comunicazione finale all’Ufficio regionale competente.
In caso di violazione, dato che la comunicazione finale «assolve alla duplice funzione, individuale e collettivo-pubblicistica» (Cass., 7 settembre 2018, n. 21907), sia il sindacato che il singolo lavoratore possono far valere in giudizio l’inefficacia del licenziamento intimato oltre i termini perentori di legge.
In tutte le ipotesi esaminate, si ritiene che resti salva la facoltà, in capo al sindacato, di esperire la procedura ex art. 28 St. lav. laddove ne sussistano i presupposti, e cioè nel caso in cui le violazioni procedimentali commesse dall’imprenditore non pregiudichino soltanto i dipendenti, ma esprimano la volontà di ostacolare l’operato delle associazioni sindacali nel loro complesso.
Viceversa, la violazione dei criteri di scelta, illegittimi per violazione di legge ovvero illegittimamente applicati in difformità dalle previsioni legali o collettive, dà luogo alla reintegrazione nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria in misura non superiore alle dodici mensilità.
Nel caso di specie, veniva in rilievo la violazione sostanziale delle procedure in materia di licenziamento collettivo (non attivate perché indebitamente sostituite da licenziamento individuale), piuttosto che la nullità per mancanza di forma scritta o per gli altri motivi elencati nel comma 1 dell’art. 18 cit., il cui accertamento, in virtù di quanto argomentato, comporta l’applicazione della tutela reintegratoria e risarcitoria nei limiti di cui ai commi 4 e 7 dell’art. 18 l. 20 maggio 1970, n. 300.
Da ciò l’esigenza di cassare con rinvio la sentenza della Corte d’appello, per determinare la misura dell’indennità risarcitoria spettante nel caso concreto entro il limite massimo di legge, nonché per provvedere sulle spese.
Antonino Ripepi, procuratore dello Stato in Reggio Calabria
Visualizza il documento: Cass., ordinanza 12 marzo 2024, n. 6580
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