La Corte costituzionale rimette alla CGUE una questione pregiudiziale sulla corresponsione condizionata dell’assegno sociale ai cittadini extracomunitari in possesso della (ex) carta di soggiorno
2 Maggio 2024|Come già fatto notare in precedenti interventi in questa Rivista, (8 giugno 2022, L. Pelliccia La Corte costituzionale si pronuncia sul diritto di accesso da parte di cittadini stranieri ad alcune indennità economiche di sicurezza sociale; 2 dicembre 2022, L. Pelliccia Dopo l’intervento regolatore della Corte costituzionale, la Cassazione ribadisce il diritto dei cittadini stranieri soggiornanti di lungo periodo all’assegno unico (già assegno per il nucleo familiare), l’accesso alle prestazioni di assistenza sociale è da sempre un tema altamente “sensibile”, al punto che se sul medesimo viene ad innestarsi anche il profilo legato alla posizione dello straniero, allora la cosa assume un contorno ancor più indefinibile e a ciò non sono certamente d’aiuto le oscillazioni e le incertezze manifestate dalla giurisprudenza, compresa quella costituzionale, vieppiù in presenza di posizioni dell’Inps a volte quanto meno rigide (seppur per tabulas).
In materia di assegno sociale, l’art. 80, co. 19, della legge n. 388/2000, seppur lasciando inalterato il testo dell’art. 41 del d.lgs. n. 286/1998, ha limitato il godimento dell’assegno sociale e delle provvidenze economiche di carattere sociale (oggetto di diritti soggettivi in base alla legislazione vigente) ai soli stranieri titolari di carta di soggiorno. Più nello specifico, l’art. 20, co. 10, del d.l. n. 112/2008 (convertito dalla legge n. 133/2008), con decorrenza 1° gennaio 2009, ha previsto che l’assegno sociale sia corrisposto «agli aventi diritto a condizione che abbiano soggiornato legalmente, in via continuativa, per almeno dieci anni nel territorio nazionale». L’inserimento della (necessaria) condizione di residenza protratta (che, almeno apparentemente si applica anche ai cittadini italiani e dell’U.E.
Sebbene parte della giurisprudenza di merito si fosse orientata in questo senso (v. Corte app. Firenze, sentt. n. 536/2017, n. 516/2018 e n. 650/2018; in parte anche Corte app. Venezia, sent. n. 356/2017), e finanche la stessa Corte costituzionale avesse fatto cenno a questa possibile lettura (v. ord. n. 180/2016, cit.), continuava a prevalere il presupposto interpretativo secondo cui la carta di soggiorno e la residenza decennale rappresentavano condizioni richieste cumulativamente in capo allo straniero per il riconoscimento del diritto all’assegno sociale.
Con la sentenza n. 50/2019 la Consulta, nel condividere il presupposto interpretativo delle ordinanze di rimessione, ha respinto però i dubbi di costituzionalità da esse proposti, escludendo che fosse discriminatoria o manifestamente irragionevole la norma che configurava la titolarità della carta di soggiorno quale presupposto per l’erogazione dell’assegno sociale, trattandosi di un sostegno erogato dalla collettività a favore di chi in essa ha operato, tant’è che esso è concesso agli stessi cittadini italiani solo dopo una residenza almeno decennale in Italia; questo intervento rappresenta infatti «anche un corrispettivo solidaristico per quanto doverosamente offerto al progresso materiale o spirituale della società (art. 4 Cost.)» e non viola pertanto l’imperativo di eguaglianza il concedere il medesimo al solo straniero sprovvisto di altri mezzi, «il cui stabile inserimento nella comunità lo ha reso meritevole dello stesso sussidio concesso al cittadino italiano».
Che la posizione assunta dalla Consulta con la sentenza n. 50/2019 fosse all’evidenza suscettibile di una sorta di rimaneggiamento da parte della giurisprudenza di merito andava dato per scontato, con ogni evidente possibilità di chiedere un nuovo intervento di costituzionalità delle norme riferite alla titolarità della carta di soggiorno quale presupposto per l’erogazione dell’assegno sociale.
Era infatti parimenti chiaro che un’eventualità del genere si sarebbe concretizzata alla prima circostanza “utile” da parte di un giudice chiamato a decidere in fattispecie del genere, meglio ancora se una posizione dubbia in tal senso fosse fatta propria dalla Corte di Cassazione.
E ciò infatti è regolarmente avvenuto, con un doppio passaggio interlocutorio da parte di due sezioni della Suprema Corte, chiamata appunto a decidere a seguito di un ricorso presentato dall’Inps, soccombente nel sottostante giudizio di merito d’appello.
Che la posizione assunta dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 50/2019 fosse all’evidenza suscettibile di una sorta di rimaneggiamento da parte della giurisprudenza di merito o di legittimità andava dato per scontato, con ogni evidente possibilità di chiedere un nuovo intervento di costituzionalità delle norme riferite alla titolarità della carta di soggiorno quale presupposto per l’erogazione dell’assegno sociale.
Con ordinanza dell’8 marzo 2023 (annotata in questa Rivista, La Corte di cassazione rimette alla Corte costituzionale l’esame di costituzionalità della corresponsione condizionata dell’assegno sociale ai cittadini extracomunitari in possesso della (ex) carta di soggiorno L. Pelliccia – 23 marzo 2023), successiva a due ordinanze interlocutorie, la Corte di Cassazione ha rimesso alla Corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale dell’art. 80, co. 19, legge n. 388/2000, nella parte in cui condiziona la corresponsione dell’assegno sociale ai cittadini extracomunitari al possesso della(ex) carta di soggiorno, in relazione agli articoli 3 e 38, comma 1°della Costituzione, nonché’ in relazione agli articoli 11 e 117 della Costituzione, con riferimento all’art. 34 CDFUE e all’art. 12 della direttiva 2011/98/UE.
La decisione di costituzionalità. Il rinvio pregiudiziale alla CGUE.
La questione di che trattasi è stata recentemente esaminata dalla Consulta con l’ordinanza n. 29 del 27 febbraio 2024 che ha disposto la sottoposizione alla Corte di giustizia dell’Unione europea, ai sensi e per gli effetti dell’art. 267 del TFUE della seguente questione pregiudiziale: “se l’art. 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva (UE) 2011/98 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, relativa a una procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso unico che consente ai cittadini di Paesi terzi di soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato membro e a un insieme comune di diritti per i lavoratori di Paesi terzi che soggiornano regolarmente in uno Stato membro, quale espressione concreta della tutela del diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale riconosciuta dall’art. 34, paragrafi 1 e 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, debba essere interpretato nel senso che nel suo ambito di applicazione rientri una provvidenza come l’assegno sociale ex art. 3, comma 6, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare), e se, pertanto, il diritto dell’Unione osti ad una normativa nazionale che non estende agli stranieri titolari del permesso unico di cui alla medesima direttiva la provvidenza sopra citata, già riconosciuta agli stranieri a condizione che siano titolari di permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo.”
Il giudice delle leggi premette che, nel caso in cui il giudice comune sollevi una questione di legittimità costituzionale che coinvolga anche le norme della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, questa Corte non può esimersi dal fornire una risposta con gli strumenti che le sono propri e che l’effetto diretto delle norme di diritto primario e derivato evocate dal giudice a quo (sentenza n. 67 del 2022, nonché Corte di giustizia UE, in causa C-350/20, O.D. e altri) non rende le odierne questioni inammissibili, in quanto esse prospettano il contrasto tra una disposizione di legge nazionale e diritti della Carta che «intersecano in larga misura i principi e i diritti garantiti dalla stessa Costituzione italiana» (sentenza n. 149 del 2022).
Nel merito, l’ordinanza in commento mette in evidenza come i dubbi di legittimità costituzionale sollevati involgano primariamente la questione interpretativa della riconducibilità, o meno, dell’assegno sociale tra le prestazioni di sicurezza sociale rispetto alle quali i cittadini di Paesi terzi muniti di permesso di soggiorno per finalità lavorative o che, comunque, consenta di lavorare, beneficiano della parità di trattamento ex art. 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98/UE.
Tale quesito esige quindi preliminarmente una risposta nella prospettiva del diritto europeo e, poiché ciò non è ancora stato oggetto di specifiche pronunce della Corte di giustizia, si ritiene necessario interpellare, mediante il rinvio pregiudiziale, la Corte medesima affinché chiarisca, rispetto all’istituto di diritto interno che viene in rilievo nel caso di specie, la portata e gli effetti delle norme dell’Unione assunte a parametro interposto nell’odierno incidente di costituzionalità.
Ricostruita l’evoluzione normativa in materia e i sottesi riflessi legati alla posizione degli stranieri, la Corte costituzionale rileva come si sia già ripetutamente pronunciata sulla conformità dell’art. 80, co. 19, della legge n. 388/2000, nella parte in cui subordina l’accesso a determinate provvidenze al possesso della (ex) carta di soggiorno, sia agli artt. 3 e 38 Cost., sia all’art. 14 CEDU.
Richiamate poi le disposizioni comunitarie, l’ordinanza n. 29/2024 mette in evidenza come i «settori della sicurezza sociale» di cui fa menzione l’art. 12, paragrafo 1, lett. e), della direttiva 2011/98/UE sono elencati all’art. 3, paragrafo 1, del suddetto regolamento e definiscono l’ambito d’applicazione “ratione materiae”» (come recita la stessa rubrica dell’art. 3) della disciplina di coordinamento delle legislazioni nazionali e, più in particolare, come si tratti settori riguardanti: a) le prestazioni di malattia; b) le prestazioni di maternità e di paternità assimilate; c) le prestazioni d’invalidità; d) le prestazioni di vecchiaia; e) le prestazioni per i superstiti; f) le prestazioni per infortunio sul lavoro e malattie professionali; g) gli assegni in caso di morte; h) le prestazioni di disoccupazione; i) le prestazioni di prepensionamento; j) le prestazioni familiari.
L’assegno sociale italiano, figurando nell’Allegato X del regolamento (CE) n. 883/2004, risulta espressamente annoverato tra le prestazioni speciali in denaro di carattere non contributivo.
Sulla scorta di quanto sul punto assunto dalla Corte di cassazione con l’ordinanza di rimessione, la decisione in commento rileva come il rinvio operato dall’art. 12, paragrafo 1, lett. e), ai settori della sicurezza sociale e definiti dal regolamento (CE) n. 883/2004 non sembra consentire un’automatica estensione del principio di parità di trattamento a tutte le prestazioni sociali ricadenti nel dominio della fonte regolamentare, ostandovi tanto la formulazione testuale della norma richiamante, quanto la ricostruzione sistematica della disciplina richiamata.
Com’è noto, l’art. 12, paragrafo 1, lett. e), del citato regolamento, nell’individuare le prestazioni presidiate dal divieto di discriminazione, non rimanda a tutte le provvidenze inscrivibili nel perimetro applicativo del regolamento (CE) n. 883/2004, ma più precisamente alle prestazioni correlate ai «settori della sicurezza sociale» dal medesimo definiti, da identificarsi con gli specifici ambiti della sicurezza sociale individuati dal precedente art. 3, paragrafo 1; inoltre, il medesimo art. 12, paragrafo 1, attribuisce il diritto alla parità di trattamento ai cittadini dei Paesi terzi indicati nell’art. 3, paragrafo 1, lett. b) e c), identificandoli come «lavoratori», là dove le prestazioni speciali ex art. 70 del predetto regolamento, rispetto ai cittadini dello Stato sede dell’istituzione debitrice, non presuppongono necessariamente una connessione, diretta o indiretta, con un rapporto di lavoro e dunque con un rapporto contributivo.
Ancora, nell’ambito della disciplina di coordinamento dettata dal regolamento (CE) n. 883/2004, le prestazioni “miste” esibiscono autonomi connotati strutturali e funzionali rispetto alle prestazioni di sicurezza sociale volte a far fronte agli eventi indicati nel paragrafo 1 dell’art. 3 del medesimo regolamento. A differenza di queste, le prestazioni speciali di carattere non contributivo forniscono una copertura dei suddetti rischi non già diretta, ma «complementare, suppletiva o accessoria», intesa a «garantire, alle persone interessate, un reddito minimo di sussistenza in relazione al contesto economico e sociale dello Stato membro interessato».
Deve, poi, considerarsi che, tra le provvidenze di cui si tratta, l’art. 70, paragrafo 2, lett. a), ii), del medesimo regolamento annovera significativamente anche quelle che offrono «unicamente la protezione specifica dei portatori di handicap, strettamente collegate al contesto sociale del predetto soggetto nello Stato membro interessato».
Tra l’altro, le prestazioni di che trattasi sono finanziate esclusivamente attraverso la fiscalità generale, intesa a coprire la spesa pubblica generale, e le condizioni per la concessione e per il calcolo del dovuto non dipendono da alcun contributo da parte del beneficiario.
Al riguardo la Corte di giustizia dell’U.E. ha affermato che la prestazione speciale in denaro di carattere non contributivo è caratterizzata da una finalità diversa da quella propria delle prestazioni di sicurezza sociale, dovendo costituire «una sostituzione o un’integrazione di una prestazione previdenziale e presentare i caratteri di un aiuto sociale giustificato da motivi economici e sociali e deciso da una normativa che fissa criteri obiettivi» (v. sentenza 29 aprile 2004, in causa C-160/02, Skalka, punto 25). Essa ha «natura assistenziale, soprattutto per il fatto che la concessione della prestazione prevista prescinde dal compimento di periodi di attività lavorativa, di iscrizione o di contribuzione assicurativa, si avvicina tuttavia sotto altri aspetti al settore della previdenza sociale» (v. sentenza 20 giugno 1991, in causa C-356/89, Newton, punto 13).
Ed è appunto in ragione delle indicate caratteristiche che il regolamento (CE) n. 883/2004 riserva alle prestazioni “miste” (richieste dallo straniero al Paese membro ospitante) un regime parzialmente diverso rispetto a quello, improntato alla parità di trattamento (art. 4), dettato per le prestazioni di sicurezza sociale di cui all’art. 3, paragrafo 1; a queste, infatti, l’art. 70, al paragrafo 3, prevede che non si applichi il principio della esportabilità che, invece, l’art. 7 pone a presidio delle prestazioni di sicurezza sociale.
A ben vedere, quindi, il legislatore comunitario ha inteso condizionare l’accesso alle prestazioni in esame al radicamento del richiedente nel territorio dello Stato chiamato a sopportare l’onere finanziario della erogazione.
La nozione di residenza presupposta dalla regola della non esportabilità, da individuarsi nel «luogo in cui una persona risiede abitualmente», si fonda sul fatto oggettivo della stabile permanenza dell’interessato nel luogo scelto come dimora abituale, con ciò significando che, nel caso in cui tale luogo si trovi in uno Stato membro diverso da quello di cui l’interessato ha la cittadinanza, la residenza qui in esame può ritenersi sussistente soltanto se ricorrono anche i requisiti richiesti per il soggiorno permanente in un Paese dell’Unione diverso da quello d’origine.
Per i cittadini dell’Unione per poter soggiornare per un periodo superiore a tre mesi nel territorio di un altro Stato membro, occorre essere un lavoratore subordinato o autonomo nello Stato membro ospitante o disporre, per sé e per i propri familiari, di risorse economiche sufficienti, affinché non divenga un onere a carico dell’assistenza sociale dello Stato membro ospitante durante il periodo di soggiorno, e deve essere munito di un’assicurazione malattia che copra tutti i rischi nello Stato membro ospitante. A norma dell’art. 16, paragrafo 1, della direttiva 2004/38/CE, i cittadini dell’Unione acquisiscono il diritto di soggiorno permanente dopo aver soggiornato legalmente e in via continuativa per cinque anni nel territorio dello Stato membro ospitante.
In ragione della richiamata disciplina eurocomunitaria, la Corte di giustizia ha osservato che le prestazioni speciali in denaro di carattere non contributivo sono concesse, ai sensi dell’art. 70, paragrafo 4, del regolamento (CE) n. 883/2004, esclusivamente nello Stato membro di residenza dell’interessato e conformemente alla normativa dello stesso, con la conseguenza che «nulla osta a che la concessione di tali prestazioni a cittadini dell’Unione economicamente inattivi sia subordinata al requisito che essi soddisfino le condizioni per disporre di un diritto di soggiorno nello Stato membro ospitante ai sensi della direttiva 2004/38» (v. sentenza 11 novembre 2014, in causa C-333/13, Dano e altro, punto 83; analoghe considerazioni si rinvengono nella sentenza 15 settembre 2015, in causa C-67/14, Alimanovic e altri e nella sentenza 25 febbraio 2016, in causa C-299/14, Vestische Arbeit Jobcenter Kreis Recklinghausen).
Ad avviso dell’ordinanza in commento, se, dunque, in mancanza delle richiamate condizioni, i cittadini dell’Unione non possono fruire delle prestazioni “miste” presso un Paese membro diverso da quello di cui hanno la cittadinanza, a maggior ragione gli Stati membri non dovrebbero essere tenuti ad accordare dette provvidenze ai cittadini extra UE che non dimostrino un significativo radicamento nel loro territorio, attestato, in primo luogo, dallo svolgimento di un rapporto di lavoro.
Del resto, la disciplina europea di coordinamento della sicurezza sociale, originariamente concepita per i soli cittadini comunitari che si spostano nel territorio dell’Unione a fini lavorativi, è stata successivamente estesa ai cittadini appartenenti a Paesi terzi, ma residenti regolarmente nel territorio comunitario per svolgervi un’attività lavorativa, dapprima dalla giurisprudenza (v. sentenza Corte di giustizia 12 ottobre 1978, in causa C-10/78, Belbouab) e, in seguito, dal legislatore, per effetto delle raccomandazioni scaturite dal Consiglio europeo straordinario di Tampere del 15 e 16 ottobre del 1999, che aveva sollecitato l’adozione di misure atte a garantire l’equo trattamento dei cittadini dei Paesi terzi che soggiornano legalmente nel territorio degli Stati membri, ad assicurare loro diritti e obblighi analoghi a quelli dei cittadini dell’Unione, a rafforzare la non discriminazione nella vita economica, sociale e culturale, nonché a ravvicinare lo status giuridico dei cittadini dei Paesi terzi a quello dei cittadini degli Stati membri.
Per quanto riguarda, in particolare, il regolamento (CE) n. 883/2004, l’estensione ai cittadini di Paesi terzi cui tale fonte di diritto derivato non fosse già applicabile unicamente a causa della nazionalità è stata disposta mediante il regolamento (UE) n. 1231/2010, che estende il regolamento (CE) n. 883/2004 e il regolamento (CE) n. 987/2009 ai cittadini di Paesi terzi cui tali regolamenti non siano già applicabili unicamente a causa della nazionalità.
Allo stato, quindi, l’attuale disciplina di coordinamento della sicurezza sociale si applica sia ai cittadini di Paesi membri che si spostano nel territorio dell’Unione per finalità lavorative, sia ai cittadini di Paesi terzi regolarmente soggiornanti in uno Stato membro, che, parimenti, si trovino in una situazione che non sia confinata, in tutti i suoi aspetti, all’interno di un solo Stato membro, ex art. 1 del regolamento n. 1231/2010/UE che chiarisce che anche per i cittadini extra UE l’applicazione della disciplina in esame postula uno spostamento dell’interessato nel territorio dell’Unione (come previsto dal considerando n. 13 del regolamento CE n. 883/2004).
Dalla equiparazione operata dal regolamento n. 1231/2010/UE deriva quindi che i cittadini di Paesi terzi che si spostano nel territorio dell’Unione europea, al pari di quelli dei Paesi membri, per poter godere delle prestazioni in denaro di carattere non contributivo ex art. 70 del regolamento (CE) n. 883/2004, devono avere un rapporto di contribuzione con il sistema previdenziale dello Stato cui richiedono la provvidenza.
In ragione di quanto sopra, il principio di parità di trattamento sancito dall’art. 12, paragrafo 1, lett. e), della direttiva 2011/98/UE non può attribuire ai cittadini di Paesi terzi muniti dei titoli di legittimazione di cui all’art. 3, paragrafo 1, lett. b) e c), una tutela più ampia di quella delineata dalla disciplina di coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale, cui la stessa direttiva fa rinvio e, quindi, ad avviso della Corte costituzionale, i cittadini di Paesi terzi ai quali si applica l’art. 12, paragrafo 1, lett. e), della direttiva 2011/98/UE possano beneficiare dello stesso trattamento riservato ai cittadini dello Stato membro in cui soggiornano soltanto se lavoratori e con esclusivo riferimento alle prestazioni relative ai settori di sicurezza sociale elencati all’art. 3, paragrafo 1, del regolamento (CE) n. 883/2004, mentre, per poter fruire delle speciali prestazioni di cui all’art. 70 del medesimo regolamento – nel cui novero si inscrive l’assegno sociale in scrutinio – non possono che sottostare alle condizioni per esse espressamente previste dalla stessa disciplina di coordinamento nonché dalla legislazione dello Stato ospitante.
Per tutto quanto sopra argomentato l’ordinanza in commento dubita che la sola titolarità di un permesso di soggiorno che consente di lavorare ai sensi della citata direttiva conferisca al cittadino extra UE il diritto di accedere alle prestazioni “miste” alle stesse condizioni dei cittadini del Paese membro in cui soggiorna e da qui, pertanto, la necessità di richiedere alla Corte di giustizia l’interpretazione delle disposizioni del diritto dell’Unione che incidono sulla soluzione delle sollevate questioni di legittimità costituzionale.
Non resta quindi che attendere cosa sul punto dirà la corte UE.
Luigi Pelliccia, avvocato in Siena e professore a contratto di diritto della sicurezza sociale nell’Università degli Studi di Siena
Visualizza il documento: C. cost.,ordinanza interlocutoria 27 febbraio 2024, n. 29
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