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La Cassazione si pronuncia sulla nozione di discriminazione con riguardo al rifiuto del lavoratore a termine di sottoscrivere un accordo tombale finalizzato all’assunzione

27 Novembre 2024|

La Corte di cassazione ha, di recente, emesso tre provvedimenti giurisdizionali sostanzialmente speculari la cui congruenza può farsi rientrare in un “sentenziare dai tratti trigemellari”.

Le tre decisioni – originanti da altrettanti regolamenti per competenza – hanno interessato l’attività giurisdizionale della Suprema Corte con particolare riguardo al tema della discriminazione nell’accesso al lavoro da parte dei prestatori a tempo determinato.

Infatti, è stato portato all’attenzione del Supremo Collegio il comportamento, asseritamente discriminatorio, di una nota fondazione lirico-sinfonica che avrebbe sottoposto a condizione ineludibile di una previa “conciliazione tombale” la stipulazione di un nuovo rapporto di lavoro a termine con la medesima lavoratrice, destinata a subordinare la firma dello stesso alla preventiva rinunzia dei contenziosi esistenti tra le parti, in ordine alle controversie su precedenti contratti, anch’essi a termine.

Nuova assunzione a termine derivante dalla speciale previsione (diversa dalla prelazione dell’art. 24, commi 1 e 4, del D.Lgs. 81/2015 e del pregresso art. 5, commi 4-quater a 4-sexies, del D.Lgs. 368/2021, atteso che non richiede alcuna comunicazione per l’esercizio del diritto) contrattuale collettiva dell’art. 1 del CCNL, secondo il quale, una volta maturato il diritto di precedenza e predispostane la graduatoria, per tutte le nuove assunzioni a termine dei vari organici funzionali, va offerta l’assunzione secondo lo scorrimento della graduatoria dei cd. “aventi diritto”.

Intraprese le azioni ai sensi dell’art. 28, D.Lgs. 150/2011, venivano adite i Tribunali del lavoro competenti per territorio secondo il collegamento del domicilio delle singole lavoratrici (art. 28, co. 2, cit.), deducendo che i fattori di protezione contro le discriminazioni nell’ambito lavorativo non sono un numerus clausus e facendo refluire (sulla scorta della nomofilachia offerta dalla Cass. con la sent. n. 1/2020 e delle Sezioni Unite sent. n. 20819/2021 e dei precedenti favorevoli ai lavoratori e sovrapponibili della Corte di Appello di Napoli sentt. n. 3883/2021 e n. 3091/2020) la lesione del diritto costituzionalmente garantito alla libera autodeterminazione negoziale (ricavabile dall’art. 21 Cost. e dai principi generali dell’autonomia privata) e la sussistenza di una discriminazione contrattuale nell’ambito del fattore di protezione delle “convinzioni personali”.

Sul punto era stata sollevata, in ogni giudizio, istanza ex art. 267, co. 2, del TFUE per chiedere alla CGUE se tale fattispecie potesse essere considerata una condotta discriminatoria (diretta e/o indiretta) e in quale fattore di protezione tale condotta discriminatoria potesse essere annoverata.

In effetti, la CGUE con la sent. del 13/10/2022, causa C-344/22 ha ritenuto che il concetto delle “convinzioni personali” e il fattore di protezione della “religione”, sebbene diversi, sono intimamente collegati tra di loro e in tale collegamento risiede la natura delle “convinzioni” stesse, nel senso di professare o esprimere una filosofia di vita a carattere ideologico religioso.

Il Tribunale di Ancona e di Campobasso dichiarano la propria incompetenza territoriale assumendo, sulla scorta delle difese avversarie, che l’essere discriminato nell’assunzione (qualunque sia il fattore di protezione) sarebbe normato dall’art. 38 del CPO (D. Lgs. 11 aprile 2006, n. 198), indipendentemente dal fattore di protezione addotto; il Tribunale di Catania, invece, dichiara la propria competenza territoriale sulla base del principio della vincolatività della prospettazione della domanda (fattore di protezione delle convinzioni personali e dell’immutabilità del rito discriminatorio ex art. 3, D.Lgs. 150/2011).

Entrambe le parti sollevano regolamento di competenza (che è bene ricordare costituisce un vero e proprio strumento di impugnazione) e gli Ermellini, con le sentenze nn. 19188, 19190 e 19192 tutte del 12 luglio 2024, non si sono limitati all’applicazione delle regole processuali sulla competenza, ma, in maniera del tutto inattesa ed originale, sono scese nel merito ed hanno fatto il punto su cosa debba intendersi con discriminazione (specialmente con particolare riguardo alle c.d. convinzioni personali) e quali siano le sue implicazioni in ordine alla competenza territoriale.

Le decisioni, oltre a essere alquanto inconsuete per le violazioni processuali e sostanziali (oltrepassare i limiti del giudizio sulla competenza e scendere nel merito, con istanza pregiudiziale sollevata costituisce una indubitabile e gravissima elisione del principio di effettività delle tutele – art. 24 Cost. e art. 6 CEDU – e dei limiti del chiesto e pronunciato del regolamento necessario di competenza) assumono un interesse significativo anche dal punto di vista dogmatico perché le implicazioni che si possono desumere dalle stesse – in termini di decodificazione del concetto di discriminazione – possono comportare delle conseguenze significative, per i giudizi futuri e, dunque, è bene comprendere in quali termini il concetto viene sviscerato ai fini di una tutela effettiva dei diritti delle parti coinvolte.

Un breve excursus dei fatti delle tre cause (come detto sostanzialmente equipollenti) può ben aiutare a meglio comprendere le rationes sottese al decisum della Corte.

Due ricorsi vedono in posizione di ricorrente le lavoratrici a termine che chiedono alla Cassazione di stabilire quale sia il foro competente a pronunziarsi sul rito discriminatorio, mentre nella decisione diacronicamente più prossima (quantomeno in termini di numero di raccolta generale) è la fondazione ad agire, impugnando l’ordinanza emessa dal Tribunale di Catania in funzione di Giudice del lavoro.

Quest’ultima sentenza è, in questa sede, oggetto di pubblicazione (Cass., Sez. Lav., Sent. 12 luglio 2024 n. 19192).

Viene, in sostanza, censurato il fatto che, per essere assunta quale tersicorea di fila, la lavoratrice abbia dovuto, preventivamente, pretermettere le azioni esperite in altra sede per ottenere giustizia rispetto ai precedenti contratti a termine (in termini di violazione della durata massima, non suscettibile di decadenza: cfr. v. F. Andretta, Durata massima, decadenza e fraudolenza nei contratti a termine: le cinque vie della nomofilassi neotomista, in  Labor, 31 ottobre 2022), con la conseguente possibile lesione dell’autodeterminazione negoziale, avente rango costituzionale.

Il giudice di prime cure, aderendo all’impostazione della lavoratrice ricorrente, afferma la correttezza del rito prescelto (ex art. 28 c.1 d.lgs 150/2011) in virtù del principio di immodificabilità del rito scaturente dalla prospettazione della domanda.

A detta del Tribunale, infatti, la domanda, radicherebbe la competenza con le naturali conseguenze che questo comporta per il corso del giudizio. Lasciando così impregiudicata la necessità o opportunità di adire la CGUE sulla nomofilachia dell’art. 1 della Direttiva 78/2000/CE e della identificazione del fattore di protezione secondo il diritto dell’Unione (funzione giurisdizionale riservata in via esclusiva alla Corte UE).

La fondazione, in sede di giudizio di legittimità, contesta questo assunto che, a suo dire, sarebbe foriero di dubbie conseguenze giacché vincolerebbe il giudice a seguire quanto rappresentato dalla parte, senza possibilità di discostarsene, quandanche si trattasse, per assurdo, di richieste pretestuose.

Lamenta, dunque, la mancata applicazione dell’art. 38 del d. lgs. 198 del 2006 e s.m.i. (cd. Codice delle pari opportunità e vertente esclusivamente sulla discriminazione di sesso femminile), da cui derivare la norma da seguire ogni qual volta si versi in una discriminazione di accesso al lavoro (indipendentemente dal fattore di protezione addotto).

Proprio questo aspetto è il punto saliente della questione, considerato che la fondazione ricusa che si tratti di una discriminazione secondo il fattore delle convinzioni personali, con la conseguente necessità di dover applicare il rito da essa indicato. Va, quindi, messo in luce che la contestazione del fattore di protezione potrebbe, come si indizia la S.C. nelle pronunce in esame, stravolgere le prospettazioni della domanda e far venire meno il rito adottato.

A dire della fondazione, la discriminazione per convinzioni personali comprenderebbe tanto le convinzioni religiose quanto quelle filosofiche o spirituali che, nel caso di specie, non rilevano considerato che la prospettazione di un accordo tombale non può costituire elemento idoneo a far lamentare discriminazioni per convinzioni personali.

Le discriminazioni per convinzioni personali, infatti, sarebbero da giustapporre a quelle per religione sicché secondo l’interpretazione richiamata dovrebbero costituire un unico motivo, non scindibile ma intrinsecamente avvinto nelle sue componenti (Corte giustizia UE sez. II, 13/10/2022, C-344/20, ECLI:EU:C:2022:774, cfr. capo 28: “Quanto all’espressione «di qualsiasi tipo» impiegata per quanto riguarda le convinzioni personali menzionate nel regolamento di lavoro di cui trattasi nel procedimento principale, è sufficiente constatare che la tutela contro la discriminazione garantita nella direttiva 2000/78 comprende solo i motivi tassativamente menzionati all’articolo 1 di tale direttiva, cosicché quest’ultima non comprende né le convinzioni politiche o sindacali né le convinzioni o le preferenze artistiche, sportive, estetiche o di altro tipo. La protezione di tali convinzioni personali da parte degli Stati membri non è pertanto disciplinata dalle disposizioni di detta direttiva.”).

Da parte della lavoratrice, invece, viene lamentata la lesione della libertà di autodeterminazione negoziale (ossia la libera autonomia contrattuale e di non essere obbligata ad accondiscendere alla rinuncia dei propri diritti per godere del proprio diritto all’assunzione a termine ex artt. 1 e 4 del CCNL) in quanto frustrata dalla mancata adesione a quanto richiesto dal datore di lavoro, ossia di sottoscrivere un accordo tombale.

Tale libera autodeterminazione negoziale, espressione dei principi costituzionali, sarebbe stata frustrata dall’imposizione datoriale dando luogo a un trattamento meno favorevole rispetto ai prestatori di lavoro direttamente comparabili che, invece, hanno inteso sottoscrivere l’accordo tombale e merita, di conseguenza, di essere inalveata all’interno del fattore delle convinzioni personali, di cui alla Direttiva 78/2000/CE oltre che negli artt. 20 e 21 CDFUE e nell’art. 14 CEDU (e Protocollo Addizionale n. 12). La lettura del fatto conduce sia ad una ipotesi di discriminazione diretta e sia indiretta.

La lavoratrice lamenta, infatti, la violazione del diritto di precedenza all’assunzione, maturato ai sensi del contratto collettivo e dell’accordo individuale sottoscritto dalle parti applicabili.

Infatti, ai sensi del quarto comma dell’art 1 del CCNL applicabile ai dipendenti delle Fondazioni lirico-sinfoniche, il diritto di precedenza deve trovare applicazione se risultano soddisfatti i requisiti previsti e cioè: «Per le assunzioni a termine di personale artistico – tranne che si tratti di sostituzioni improvvise o che ricorrano esigenze eccezionali od impreviste – le Fondazioni procedono ad una selezione annuale prima dell’inizio della stagione formulando apposita graduatoria degli idonei, ferma restando, una volta esaurita tale graduatoria, la possibilità di ricorrere a chiamate dirette. Il personale artistico che per un triennio consecutivo abbia partecipato alle selezioni annuali e, risultato idoneo, sia stato assunto a termine in ciascuna delle stagioni comprese nel triennio, a partire dalla stagione successiva al triennio ha diritto di precedenza nelle assunzioni a termine per esigenze stagionali – senza quindi dover partecipare alle selezioni annuali indette dalla Fondazione – purché non abbia dato luogo a contestazioni artistico professionali o disciplinari».

Inoltre, l’Accordo 29 luglio 2003, confluito all’interno del contratto collettivo, avendo ben presente che il diritto di precedenza potrebbe essere frustrato dalla mancata indizione annuale di selezioni atte a reclutare i prestatori del settore, prevede, espressamente, che le parti «Ritengono pertanto che il diritto di precedenza possa maturare anche per quei professori d’orchestra, artisti del coro e tersicorei che la Fondazione abbia assunto con contratto a termine per tre stagioni consecutive, senza aver indetto con regolarità le audizioni annuali, purché beninteso il lavoratore abbia partecipato, acquisendo l’idoneità, ad almeno una selezione annuale».

Orbene dal testo della sentenza il diritto di precedenza parrebbe pacifico in virtù della sottoscrizione di molteplici contratti a termine per un triennio consecutivo (2017-2019).

La lavoratrice, in tal modo, adiva il Tribunale del luogo del suo domicilio, innanzi al quale, però, la fondazione resistente eccepiva l’incompetenza territoriale.

Come rappresentato il concetto di discriminazione fatto valere dalla ricorrente è di stretta importanza giacché è dalla sua sostanziale interpretazione che deriva il consequenziale radicamento territoriale innanzi al “giusto giudice” (secondo l’espressione paolina laicamente intesa) deputato a pronunziarsi sulla questione.

Sembra opportuno, dunque, diffondersi alquanto sul concetto di discriminazione perché afferisce strettamente al cuore della questione in oggetto (sul tema A. Lassandari, Le discriminazioni nel lavoro. Nozioni, interessi, tutele, Cedam, 2010; E. Tarquini, Le discriminazioni sul lavoro e la tutela giudiziale, Giuffrè, 2015; C. Marvasi, Le discriminazioni nel mondo del lavoro, Aracne-Genzano di Roma, 2023).

Circa il problema della competenza territoriale si contrappongono, essenzialmente, due tesi scaturenti dall’interpretazione del concetto di discriminazione posto a base della controversia.

La prima vedrebbe l’applicazione dell’art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011, con competenza del foro del domicilio del ricorrente, mentre la seconda propugnerebbe per l’applicazione dell’art. 38 del d.lgs. n. 198 del 2006, con competenza del giudice del locus commissi discriminationĭs.

Secondo un’interpretazione, il giudice di prime cure, non avrebbe avuto competenza a pronunziarsi sulla controversia in quanto avrebbe dovuto declinarla in favore del giudice del locus commissi discriminationĭs ossia del luogo ove fu realizzato il comportamento censurato e ciò perché la lamentata disparità di trattamento sarebbe disciplinata dal decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198.

Il detto decreto, infatti, reca il Codice delle pari opportunità tra uomo e donna e, all’art. 38, disciplina i provvedimenti cui è possibile ricorrere per ottenere tutela contro le discriminazioni.

Il primo comma dell’art.38, espressamente dispone che «Qualora vengano poste in essere discriminazioni in violazione dei divieti di cui al capo II del presente titolo o di cui all’articolo 11 del decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66, o comunque discriminazioni nell’accesso al lavoro, nella promozione e nella formazione professionale, nelle condizioni di lavoro compresa la retribuzione, nonché in relazione alle forme pensionistiche complementari collettive di cui al decreto legislativo 5 dicembre 2005, n. 252, su ricorso del lavoratore o, per sua delega, delle organizzazioni sindacali, delle associazioni e delle organizzazioni rappresentative del diritto o dell’interesse leso, o della consigliera o del consigliere di parità ((della città metropolitana e dell’ente di area vasta di cui alla legge 7 aprile 2014, n. 56)) o regionale territorialmente competente, il tribunale in funzione di giudice del lavoro del luogo ove è avvenuto il comportamento denunziato, nei due giorni successivi, convocate le parti e assunte sommarie informazioni, se ritenga sussistente la violazione di cui al ricorso, oltre a provvedere, se richiesto, al risarcimento del danno anche non patrimoniale, nei limiti della prova fornita, ordina all’autore del comportamento denunciato, con decreto motivato ed immediatamente esecutivo, la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti».

Questa posizione è, innanzi al giudice di prime cure, fatta valere dalla Fondazione resistente che afferma la necessità delle parti di portare la causa innanzi al luogo della discriminazione.

Il Tribunale in funzione di Giudice del lavoro non condivideva tale assunto e, al contrario, respingeva l’eccezione di incompetenza territoriale in quanto l’art. 38 del Codice delle pari opportunità tra uomo e donna è, per l’appunto, dedicato alla tutela della parità tra i generi e tale situazione non sarebbe stata evocata dalla parte ricorrente.

Nello specifico il decidente respingeva la prospettazione della fondazione poiché, sebbene il testo dell’art. 38 faccia riferimento a discriminazioni nell’accesso al lavoro, è comunque diretta a fornire tutela a situazioni di discriminazioni nell’acceso al lavoro legate al genere o, mediatamente, collegate al profilo della parità tra i sessi situazione che, nei fatti di causa, non rileverebbe poiché il profilo del genere o della parità dei sessi parrebbe estraneo.

In effetti, a ben vedere, la lavoratrice non subisce un trattamento deteriore in ragione del proprio genere bensì per la esternata volontà di non sottoscrivere un accordo tombale lesivo dei diritti rivendicati innanzi all’autorità giudiziaria e questo comportamento non pare avere alcun elemento di congiunzione con quanto inteso tutelare dal codice per le pari opportunità apparendo, piuttosto, un rifiuto determinato da un’intima convinzione della prestatrice ossia che l’accordo violasse i propri diritti ,concretando un’ipotesi di patente ingiustizia e ciò può ben definirsi come “convinzione personale”.

Affermava, invece, la propria competenza, quale giudice del luogo di domicilio della prestatrice, ai sensi e per gli effetti dell’art. 28 del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150.

Tale corpus normativo, come noto, ha introdotto Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69 e, all’art. 28, concerne le controversie in materia di discriminazione.

Dopo aver compiuto, al primo comma, l’elencazione dei riferimenti normativi che afferiscono alle discriminazioni che intende contrastare, stabilisce l’applicazione del rito semplificato di cognizione.

Al secondo comma, dunque, afferma la competenza del giudice del luogo di domicilio del ricorrente.

Pertanto, alla luce di ciò, il giudice di prime cure respingeva l’assunto di parte resistente e confermava la scelta di parte ricorrente suffragata, a suo dire, dal disposto dell’art. 28, secondo comma, testé evocato.

A ben vedere l’art. 28, primo comma, fa riferimento a cinque diverse tipologie di discriminazioni di cui è bene dare conto (Sui fattori di discriminazione si veda M. Militello e D. Strazzari, I fattori di discriminazione in La tutela antidiscriminatoria. Fonti, strumenti, interpreti, a cura di M. Barbera e A. Guariso, Giappichelli, 2020, pp. 85-164).

In primo luogo, si occupa delle vertenze che trovano la propria disciplina all’art. 44 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286.

Questo articolo regolamenta la c.d. Azione civile contro la discriminazione, di cui all’art. 42 della legge 6 marzo 1998.

In sostanza si tratta dei comportamenti dei privati – o della pubblica amministrazione – diretti a concretizzare una discriminazione per «motivi razziali, etnici, linguistici, nazionali, di provenienza geografica o religiosi» e, a ben vedere, non rileva per il caso in esame.

La seconda classificazione di discriminazioni, verso le quali è possibile ottenere tutela, concerne le disparità di cui all’art. 4 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 215 che attua la direttiva 2000/43/CE diretta a concretizzare l’equipollenza nel trattamento a prescindere dalla razza e dall’origine.

L’art. 4 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 215, al primo comma, fa riferimento ai giudizi di carattere civile volti a censurare gli atti o i comportamenti che descrive al suo articolo 2, che è dedicato alla «Nozione di discriminazione».

In detto articolo, infatti, si richiama il principio di parità di trattamento che trova concretizzazione nella «assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della razza o dell’origine etnica» e segue l’esplicazione della definizione affermata.

L’art. 4 richiama l’art. 2 e statuisce l’applicazione dell’art. 28 del decreto legislativo 1° settembre 2011, n.150, che radica la competenza nel luogo di domicilio del ricorrente e richiama, altresì, l’azione civile contro la discriminazione, vista poco sopra.

Queste tipologie di discriminazioni, come visto, concernono la razza o i motivi etnici e, dunque, non rilevano per i fatti di causa.

La terza catalogazione di liti, che vengono ad emersione dal testo del decreto, trova la propria disciplina all’art. 4 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216.

Essa pare essere maggiormente conferente con i fatti di causa e merita un’attenzione più puntuale.

Il decreto, infatti, recepisce la direttiva 2000/78/CE votata a dare concretezza alla parità di trattamento con riguardo all’occupazione e, più in generale, alle condizioni di lavoro.

Il decreto, inoltre, ha incluso al suo interno la disciplina della successiva direttiva n. 2014/54/UE volta a facilitare la libera circolazione dei lavoratori.

L’art. 4 dell’evocato decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, al primo comma, interviene sulla legge 20 maggio 1970, n. 300 che contiene, come è noto, il c.d. Statuto dei lavoratori.

Nel novellare quest’ultimo articolo amplia la portata delle discriminazioni reprimibili sicché il testo che ne vien fuori è assai articolato.

Infatti, l’articolo 15 della celeberrima legge, recante le Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale, nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento, è dedicato alla libertà sindacale e disciplina, alla lettera a), la nullità di qualsiasi patto diretto a  condizionare l’occupazione del prestatore alla sua adesione (o non adesione) a un determinato sindacato ovvero, alla lettera b), vieta di «licenziare un lavoratore, discriminarlo nella assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari, o recargli altrimenti pregiudizio a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero» e prosegue, poi, stabilendo che «Le disposizioni di cui al comma precedente si applicano altresì ai patti o atti diretti a fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età ((, di nazionalità)) o basata sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali».

L’art. 4 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216 stabilisce, anche per queste ipotesi discriminatorie, l’applicazione dell’art. 28 del decreto legislativo 1° settembre 2011, n.150 che individua la competenza del giudice del luogo del domicilio del ricorrente.

La quarta tipologia di discriminazioni, poi, è contenuta all’art. 3 della legge 1° marzo 2006, n. 67, e concerne i pregiudizi in danno alle persone con disabilità e, anche per questa ipotesi, la competenza è la medesima.

L’ultima classificazione rimanda, nuovamente, al Codice per le pari opportunità (art. 55-quinquies del decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198) e, in particolare, alle discriminazioni legate al sesso nell’accesso a beni o servizi con l’applicazione, anche per questa ipotesi, dell’art. 28 del decreto legislativo 1° settembre 2011, n.150.

Compiuta questa breve disamina sulle discriminazioni, che sono annoverate all’art. 28 del decreto legislativo 150/2011, occorre dare conto della tesi avversaria e cioè, della sussunzione dei fatti di causa all’interno della fattispecie di cui all’art. 38 del Codice per le pari opportunità.

Infatti il detto articolo reprime le discriminazioni compiute in violazione dei divieti di cui al Capo II del Codice che, all’articolo 27, primo comma, vieta «qualsiasi discriminazione per quanto riguarda l’accesso al lavoro, in forma subordinata, autonoma o in qualsiasi altra forma, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione…» e prosegue con una formulazione assai ampia – a trama aperta – perché stabilisce il divieto delle discriminazioni nell’accesso al lavoro («o comunque discriminazioni nell’accesso al lavoro»).

In questo caso la competenza non è del giudice ove il lavoratore ha il domicilio bensì – come detto – del GL del luogo ove è avvenuto il comportamento denunziato.

Tornando, dunque, ai fatti e asserito che il giudice di prime cure di Catania (regolamento di competenza esitato nella sentenza Cass. Sez. lavoro n. 19192/2024 del 12 luglio 2024) si muove nella direzione della tesi diretta all’applicazione del foro del domicilio del ricorrente e non già del luogo della discriminazione, mentre il Tribunale di Ancora declina la propria competenza in favore del giudice del luogo in cui è avvenuta la discriminazione (regolamento di competenza esitato nella sentenza Cass. Sez. lavoro n. 19190/2024 del 12 luglio 2024) e allo stesso modo procede il Tribunale di Campobasso (regolamento di competenza esitato nella sentenza Cass. Sez. lavoro n. 19188/2024 del 12 luglio 2024), occorre capire i motivi che hanno spinto, i tre diversi Giudici del lavoro dei tre diversi Tribunali, a decidere sulla competenza nei termini che si è detto.

La fondazione lirico-sinfonica, infatti, impugna l’ordinanza con regolamento di competenza chiedendo che venga affermata la competenza del giudice del luogo della discriminazione e così, mutatis mutandis, fanno le lavoratrici ricorrenti negli altri due procedimenti affinché – viceversa – sia affermata la competenza del giudice del domicilio delle ricorrenti.

Il Procuratore Generale, in tutti e tre i ricorsi, ha reso le proprie conclusioni chiedendo che venisse dichiarata l’inammissibilità dei ricorsi e, in subordine, la competenza del foro del luogo in cui sarebbe avvenuta la discriminazione.

La Cassazione, al punto 1 della sentenza, riporta i motivi che hanno indotto la lavoratrice a ricorrere al Giudice del lavoro a motivo della «imposizione datoriale della preventiva sottoscrizione di un verbale di conciliazione c.d. tombale quale condizione per la stipula tra le parti di un contratto di lavoro a termine» (Cass. Sez. lavoro, Sent. n. 19192/2024 cit., pag. 3).

La Suprema Corte da, altresì, conto del fatto che, nel ricorso introduttivo innanzi al giudice di prime cure, la lavoratrice lamentava la proposta della fondazione diretta a subordinare «l’assunzione alla condicio sine qua non della preventiva sottoscrizione di una conciliazione transattiva di natura c.d. “tombale”, con la quale si imponeva la rinuncia di ogni diritto maturato in cambio della singola assunzione a termine (nonostante il diritto di precedenza acquisito ai sensi dell’art. 1 CCNL fondazioni lirico-sinfoniche)» (Cass. Sez. lavoro Sent. n. 19192/2024 cit. pag. 4).

Al punto 2, gli Ermellini richiamano il noto principio iura novit curia per il quale il giudice, conoscendo tutto il diritto ed essendo garante della corretta applicazione di quest’ultimo, è tenuto ad applicare al caso sottoposto al suo apprezzamento anche le norme non indicate dalle parti e ciò, a ben vedere, risponde, anche, a una precisa scelta assiologica compiuta dai Costituenti, per i quali il giudice è soggetto soltanto alla legge ai sensi dell’art. 101, secondo comma, Cost. (sull’argomento Pizzorusso, alla voce Iura novit curia (Ordinamento italiano), in Enciclopedia Giuridica, Roma, 1989).

In forza di ciò la Corte procede a operare una diversa qualificazione delle prospettazioni delle parti e, richiamando la propria precedente giurisprudenza (Cass. n. 8645 del 2018; Cass. n. 5832 del 2021), afferma la possibilità di applicare «princìpi di diritto diversi da quelli erroneamente richiamati dalle parti».

Al punto 3, così, con lapidaria precisione, afferma che «tenuti fermi i fatti allegati nel ricorso introduttivo del giudizio, alla luce degli artt. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011 e 38 del d.lgs. n. 198 del 2006, l’atto lamentato come illegittimo dalla lavoratrice non riveste i connotati propri di una forma di discriminazione». La motivazione appare oltremodo apparente, perché non esplicita il percorso motivazionale reale secondo cui non sussista discriminazione e oltrepassa i propri poteri giurisdizionali per entrare, a gamba tesa, in quelli esclusivi della Corte di giustizia UE.

Al punto 4 e al punto 5 la Suprema Corte riporta, i testi delle disposizioni che, come un pendolo, si contendono il campo di applicazione e, cioè, l’art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011 e 38 del d.lgs. n. 198 del 2006.

Al punto 6, quindi, precisa a quali discriminazioni facciano riferimento i rinvii operati dalle disposizioni indicate nell’art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011.

Richiamate le diverse classificazioni di discriminazioni, che la legge intende sterilizzare, il Supremo Collegio restringe a due soli raggruppamenti le discriminazioni lamentate nel caso concreto e cioè alle disparità dovute al genere e alle discriminazioni basate sulle convinzioni personali.

Quest’ultime tipologie, entro le quali sarebbero potute, astrattamente, incasellarsi, le condotte evocate vengono, al punto 7 della decisione, ricusate dato che la Cassazione afferma che esse non concretizzano né una discriminazione di genere, né una discriminazione basata su convinzioni personali, ex art. 15, comma 2, della legge n. 300 del 1970.

In merito alla prima tipologia, la Cassazione afferma che non è stata denunziata, dalla parte ricorrente, alcuna discriminazione legata al genere femminile rispetto al genere maschile perciò sembrerebbe intendersi che, quand’anche si fosse verificata, la parte non avrebbe assolto l’onere di dimostrazione in giudizio.

Con riguardo alle discriminazioni legate alle cc.dd. convinzioni personali, i Giudici di Piazza Cavour affermano che la detta perifrasi fa riferimento ad «opinioni del lavoratore, anche con una proiezione dinamica e fattuale (es. adesione ad una associazione sindacale, esercizio del diritto di sciopero), che abbiano determinato un profilo di svantaggio all’accesso al lavoro, che nel caso di specie non sono state allegate» (Cass. Sez. lavoro n. 19192/2024 cit. pagg. 6-7 della sentenza).

Su quest’ultima tipologia di discriminazioni la Cassazione afferma che «la discriminazione per “convinzioni personali” suppone pur sempre come fattore – appunto – di discriminazione – l’adesione del lavoratore ad un sistema di valori o, almeno, a un’opinione specifica su un dato tema o a una singola iniziativa, adesione od opinione estranee alla prestazione oggetto del contratto di lavoro e preesistenti alla condotta datoriale che le utilizzi come fattore di discriminazione» (Cass. Sez. lavoro n. 19192/2024 cit. pag. 7 della sentenza, punto 8).

A ben vedere, al punto 7 della decisione, la Cassazione è ben consapevole della necessita che sussista un siffatto presupposto perciò si esprime nei termini di un’«eterogeneità delle ipotesi di discriminazione ideologica estesa alla sfera dei rapporti sociali», richiamando la Cassazione a Sezioni Unite del 21 luglio 2021, n. 20819 (che, a sua volta, richiama nel suo testo al punto 6.1., la Cass. Sent. n.1 del 2000).

Pur ribadendo che, ad ogni buon conto, debbano essere allegate dichiarazioni del lavoratore che hanno determinato un suo concreto svantaggio, afferma come «Non sono state, invero, allegate manifestazioni di convincimenti morali, filosofici, sociali e, più in genere, scelte riferibili alla sfera intima della coscienza individuale della lavoratrice, che abbiano influenzato la condotta datoriale, quanto piuttosto è stata dedotta l’illegittima apposizione di una condizione sospensiva alla stipulazione di un contratto a termine, prospettazione che non configura un profilo discriminatorio ossia una ingiustificata differenza di trattamento dovuta ad un determinato fattore tipizzato dalla legge» (Cass. Sez. lavoro n. 19192/2024 cit. pag. 7 della sentenza, punto 7).

Al punto 9 prende posizione sul verbale di conciliazione tombale che la fondazione ha inteso quale condizione non superabile per la stipulazione del contratto dando conto del fatto che il rifiuto di sottoscrivere la conciliazione di carattere tombale «non esprime un preesistente convincimento personale della lavoratrice medesima su un dato argomento o sistema valoriale, né una particolare sua iniziativa, bensì il suo mero rifiuto di sottostare ad una pattuizione di cui si assume il carattere illegittimo e comunque ingiustificato» (Cass. Sez. lavoro n. 19192/2024 cit. pag. 7, punto 9).

Afferma ciò anche in considerazione del fatto che, attribuendo alla nozione di discriminazione per convinzioni personali una interpretazione massimamente estensiva, si rischierebbe di dilatare a tal punto il concetto da poter farvi rientrare ogni manifestazione datoriale cui il lavoratore intendesse opporsi «Diversamente opinando il concetto di discriminazione si dilaterebbe al punto da estendersi a qualsivoglia condotta datoriale che si assuma come illegittima e alla quale il lavoratore voglia opporsi» (Cass. Sez. lavoro n. 19192/2024 cit. pag. 7, punto 9).

La Suprema Corte, quindi, rassegna le proprie conclusioni pronunziandosi per l’insussistenza della condotta discriminatoria idonea a radicare la competenza secondo quanto prospettato dalla ricorrente e per la conseguente applicazione degli articoli 413 e seguenti del codice di rito che non compendiano il foro del domicilio del ricorrente.

Ordina, dunque, la riassunzione della causa innanzi al giudice del luogo in cui sarebbe sorta la discriminazione lamentata affinché la causa proceda nel suo iter processuale.

Se questa risulta essere, sommariamente, la decisione della Corte di Cassazione, credo sia possibile formulare alcune considerazioni a commento della stessa.

L’ordinanza impugnata dichiara la competenza territoriale del giudice del domicilio del lavoratore e, nel fare ciò, assume la non applicabilità del codice delle pari opportunità.

La lavoratrice, infatti, lamenta discriminazione nell’accedere al lavoro a causa delle proprie “convinzioni personali”, invocando la Direttiva 78/2000/CE nonché della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, nel suo art. 21.

Una prima questione attiene al divieto di mutamento del rito che è legato a doppio filo al principio di prospettazione della domanda.

In effetti il giudice di prime cure, tenendo conto della domanda proposta e del rito prescelto, si muove all’interno del percorso processuale che la parte ha inteso indicare, pronunciando l’ordinanza impugnata.

La Suprema Corte, invece, discostandosi dal rito scelto per introdurre la domanda, interpretando diversamente il concetto di discriminazione, in sostanza, dà luogo ad un mutamento del rito processuale, ribaltando quanto affermato dal primo giudice.

La tesi della immutabilità del rito adottato (ex art. 3, co. 1, del D.Lgs. 150/2011) è, infatti, foriera di importati implicazioni, considerato che modificando la domanda viene in emersione un diverso fattore di protezione con l’implicazione di un diverso rito a tutela del nuovo fattore di protezione che, a ben vedere, non corrisponde più a quanto prospettato dalla parte innanzi al primo giudice.

Per quanto concerne la condotta discriminatoria della Fondazione, va, in effetti, tenuta in considerazione la Cass. Sez. Un. n. 20819/2021, del 21.07.2021, dalla quale si evince che «l’espressione “convinzioni personali” deve essere interpretata in tale contesto, come formula di chiusura del sistema, nel senso che le opinioni del lavoratore, che possono riguardare temi diversi …, anche con una proiezione dinamica e fattuale …, non possono legittimare una condotta discriminatoria, che cioè non consenta al lavoratore di esercitare in situazione di parità i propri diritti”».

Il fatto che la lavoratrice abbia scelto – quale fattore di protezione – le convinzioni personali pare, in effetti, in linea con la volontà del diritto unionale di rafforzare la tutela discriminatoria che sostanzialmente è concretizzabile a danno dei prestatori sicché la scelta di inquadrare la discriminazione (sia diretta che indiretta) all’interno del detto fattore sembrerebbe ragionevolmente avanzata, atteso che quest’ultimo fattore può ben rappresentare una valvola di chiusura del sistema e offrire tutela al caso sottoposto allo scrutinio degli Ermellini, 1  Direttiva 78/2000/CE.

L’incasellamento all’interno di questo caratteristico fattore di protezione non è una scelta isolata delle ricorrenti (n.d.r. delle lavoratrici) atteso che vi è una pronuncia della Corte di Appello di Napoli che considera pienamente corretta una simile prospettazione (Corte di Appello di Napoli, Sez. Lav., sent. n. 3883/2021 pubblicata il 3 gennaio 2022).

All’interno di questa pronuncia, infatti, il Giudice dell’appello – in una fattispecie lapalissianamente congruente con quella oggetto dei commento – afferma, a pag. 9, che «Costituisce discriminazione per convinzioni personali, dunque, anche la diversità di comportamento riservata dal potenziale datore di lavoro al lavoratore che non voglia sottoscrivere clausole o accordi evidentemente pregiudizievoli e limitative di diritti acquisiti o acquisibili in via giudiziaria».

Il Collegio prosegue statuendo che «Dunque, se nel concetto di convinzioni personali può farsi rientrare anche la libertà di autodeterminazione contrattuale del lavoratore, deve ritenersi che da ciò consegue il divieto di atti o comportamenti idonei a realizzare una diversità di trattamento o un pregiudizio in ragione del rifiuto del lavoratore di addivenire a transazioni “forzate”, non espressione di una comune volontà abdicativa» (pagg. 9-10) e concludendo, a pag. 13, che «è del tutto evidente che la discriminazione ai danni dei ricorrenti si è verificata poiché sono stati assunti inizialmente solo quelli che avevano sottoscritto le transazioni».

Tale conclusione è giustificata, anche, sotto il profilo probatorio, considerato che, afferma la Corte di Appello di Napoli, a pag. 14 della sentenza, che «…può ritenersi adeguatamente provato che il trattamento deteriore riservato agli appellanti trovi fondamento nella volontà di discriminare il lavoratore in ragione delle sue “convinzioni personali” che lo avevano condotto a non cedere alla condotta coercitiva della imposizione di un verbale di conciliazione o transazione».

Le ovvie conseguenze, per la Corte di Appello di Napoli, sono che «Il datore di lavoro risulta in sintesi aver violato, in sede di accesso al lavoro, il diritto assoluto della libertà ideologica ed all’autodeterminazione negoziale del lavoratore, vistosi coartato nella propria volontà negoziale all’atto immediatamente preliminare alla conclusione del contratto. Si tratta di condotte che costituiscono reazione all’esercizio di un diritto soggettivo inviolabile quale il diritto a determinare liberamente la propria volontà negoziale nell’ambito dell’accesso al lavoro, riconducibile quest’ultima alla categoria delle convinzioni personali protette contro gli atti discriminatori» Corte di Appello di Napoli, Sez. Lav., sent. n. 3883/2021, pubblicata il 3 gennaio 2022 pp.14-15 (A commento della statuizione si veda V. A. POSO, Una ipotesi particolare di discriminazione per convinzioni personali, ossia per la lesione della libertà «ideologica» di autodeterminazione negoziale del lavoratore richiesto di sottoscrivere una conciliazione «tombale» prima della sua assunzione, in Labor 28 gennaio 2022).

Tuttavia, la Suprema Corte, non ritiene che la tesi della lavoratrice meriti accoglimento e, dunque, si pronuncia nei termini sopra rappresentanti.

A ben vedere, però, il ragionamento condotto, anni prima, dalla Corte di Appello di Napoli (così come quello sviluppato dal giudice di prime cure) appare più che ragionevole, anche alla luce del diritto eurounitario, atteso che considera il comportamento datoriale discriminatorio e ritorsivo e, dunque, protetto secondo il fattore delle convinzioni personali, alla luce dell’art. art. 2, commi 1, 3, 4 e dell’ art. 11 della Direttiva 78/2000/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000 nonché dell’art. 21 CDFUE.

La Suprema Corte, invero, lamenta la mancata allegazione di esternazioni di carattere morale, filosofico o sociale, espressioni dell’intima coscienza della lavoratrice e frutto delle sue scelte personali ma ci si può domandare se il rifiuto di sottoscrivere un accordo tombale, diretto a sacrificare i diritti rivendicati sull’altare del nuovo lavoro, “inumandoli”, cioè, in cambio di un altro rapporto non costituisca – esso stesso –  una manifestazione tangibile, per facta concludentia, di un profondo convincimento quale è la volontà del lavoratore a che la propria libertà negoziale non venga frustrata da coazioni esterne ma possa esplicarsi pienamente e indipendentemente e con la dignità che si conviene ad una libertà come l’autodeterminazione contrattuale, avente rango costituzionale.

In conclusione non è lapalissiano affermare come le discriminazioni nel mondo del lavoro costituiscono un tema «antico e sempre nuovo», che riserva sorprese e inediti scenari giacché tocca la nuda pelle dei prestatori ma è diretto a implicare importanti conseguenze anche sulla giurisprudenza in materia (Cfr. V. A. POSO, Una ipotesi particolare di discriminazione per convinzioni personali… sopra citato; R. SANTAGATA DE CASTRO, Le discriminazioni sul lavoro nel «diritto vivente», Edizioni Scientifiche Italiane, 2019).

Angelo Ventura, dottore di ricerca in diritto ed economia

Visualizza i documenti: Cass, 12 luglio 2024, n. 19190; Cass., 12 luglio 2024, n. 19188; Cass., 12 luglio 2024, n. 19192

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