Il tempo impiegato dalla timbratura del cartellino all’accensione del p.c. è orario di lavoro da retribuire?
21 Novembre 2024|Come già avvenuto in passato, con un’ordinanza destinata ad avere una eco importante, la Corte di cassazione si è pronunciata sul tema della retribuzione per dei dipendenti del caring services.
Si tratta dell’ordinanza 28 maggio 2024, n. 14848.
Innanzi al Supremo Collegio è stato proposto ricorso avverso alla sentenza della Corte di Appello di Roma che, in accoglimento del gravame proposto da alcuni lavoratori, riconosceva il diritto di quest’ultimi alla retribuzione di complessivi dieci minuti giornalieri (cinque in ingresso e cinque in uscita) da considerarsi quale tempo di effettivo lavoro.
Dalle prospettazioni dei fatti di causa, infatti, emergeva come i predetti dipendenti non completassero la procedura di rilevazione in servizio all’atto dell’ingresso presso i locali aziendali dal momento che essa necessitava di ulteriori passaggi.
In particolare, dalla timbratura del cartellino (in prossimità del tornello posto all’entrata) i lavoratori dovevano raggiungere il loro personal computer per dare seguito alla procedura di log on e, parimenti, facevano all’atto di uscire ponendo in essere le operazioni di log off, per poi timbrare il cartellino.
Tutte queste operazioni necessitavano di complessivi dieci minuti giornalieri (cinque in ingresso e cinque in uscita) che non venivano riconosciuti ai dipendenti e dunque non retribuiti.
La Corte di Appello, ritenendo accoglibili le rivendicazioni delle maestranze, riconosceva, così, il diritto degli appellanti alla retribuzione del quotidiano lasso di tempo, a partire dal 1° aprile 2017, e condannava al pagamento della conseguente quota-parte di retribuzione, oltre alle spese di lite.
La società di caring services propone ricorso per cassazione giacché non condivide le conclusioni cui è giunto il giudice dell’appello ed evidenzia tre motivi per i quali, a suo dire, la decisione merita di essere censurata.
Per mezzo del primo motivo, deduce la violazione e falsa applicazione dell’art.1, II comma, lett. a) del decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66 ai sensi dell’art. 360, I comma, n. 3 del codice di rito.
Come è noto la disposizione richiamata, alla lettera a), espressamente dispone che agli effetti del decreto «si intende per: a) “orario di lavoro”: qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni».
Per la società, il giudice di secondo grado avrebbe errato nel ritenere orario di lavoro il tempo di percorrenza dall’ingresso fino all’attestazione dell’inizio dell’attività lavorativa sul pc (e viceversa per l’uscita).
Essa, infatti, avrebbe valutato in maniera sbagliata le circostanze di fatto e, inoltre, avrebbe ritenuto provati i fatti di causa senza considerare che, innanzi al giudice di prime cure, non fosse stata esperita nessuna attività istruttoria.
Sempre sul piano probatorio – secondo la prospettazione datoriale – la Corte d’Appello avrebbe dato luogo a un vero e proprio ribaltamento dell’onore probatorio poiché avrebbe posto in capo alla società l’onere di dimostrare che il dipendente, durante l’anzidetto periodo di tempo, non fosse a disposizione del datore e neppure sottoposto al suo potere.
Sempre con riguardo al primo motivo di doglianza, la Corte di Appello non avrebbe rettamente considerato l’esposizione delle varie attività compiute dal lavoratore all’ingresso e all’uscita.
La Cassazione, nello scrutinare il primo motivo, si pronuncia per il rigetto dello stesso in quanto non meritevole di accoglimento poiché inammissibile e infondato.
Riportando la propria costante giurisprudenza (tra le quali Cass. 7009/2017 e Cass. 30577/2019), gli Ermellini hanno affermato che il motivo proposto viola il principio di specificità accorpando, in vario modo, doglianze di fatto e di diritto giustapposte ad errores in procedendo unitamente ad errores in iudicando e, inoltre, solleciterebbe la Corte di Cassazione ad effettuare accertamenti sui fatti di causa e sulla valutazione delle prove che sono preclusi al giudice di legittimità.
La Corte d’Appello, infatti, non avrebbe violato il dato letterale della legge in quanto, si sarebbe limitata ad applicarla, uniformandosi all’interpretazione dell’art.1, II comma, lett. a) del decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66.
La Cassazione, invero, evidenzia come la Corte territoriale non abbia fatto altro che interpretare rettamente la disposizione in questione, uniformandosi, peraltro, alla «interpretazione corrente e consolidata della normativa sull’orario di lavoro ai sensi del d.lgs. n.66/2003 e delle direttive comunitarie nn. 93/104 e 203/88» (Cass. Ord. 28/05/2024 n. 14848, n. 1.4 dei motivi della decisione pag. 4).
Nella sentenza gravata il principio di diritto applicato implica che le operazioni fatte rientrare all’interno del concetto di orario di lavoro debbano essere necessarie e obbligatorie.
La Suprema Corte, dunque, evidenzia come il giudice d’appello abbia applicato il principio di diritto per il quale «il tempo retribuito richiede che le operazioni anteriori o posteriori alla conclusione della prestazione di lavoro siano necessarie e obbligatorie» (Ibidem).
Secondo la statuizione del giudice territoriale, le attività poste in essere dai lavoratori sono sussumibili all’interno del concetto di orario di lavoro prospettato, in linea con il principio di diritto richiamato e, perciò, sono da considerarsi, a tutti gli effetti, tempo lavorato.
Questa interpretazione si rifà al costante orientamento del Supremo Collegio, che è stato ribadito nella richiamata decisione n. 27008/2023, con la quale veniva dichiarato illegittimo l’accordo aziendale diretto a concretizzare un periodo di franchigia per i lavoratori che si spostavano per raggiungere il luogo di primo intervento e fare rientro alla sede aziendale (Sul tema sia consentito il rinvio a A. Ventura, La Corte di cassazione si pronuncia sull’orario di lavoro dei tecnici esterni, in questa rivista 28 Settembre 2024, a commento dell’ ordinanza 17 giugno 2024, n. 16674, concernente orario di lavoro e franchigia non assoggettata a retribuzione: https://www.rivistalabor.it/la-corte-di-cassazione-si-pronuncia-sullorario-di-lavoro-dei-tecnici-esterni/).
Per la Cassazione questo tempo è lavoro e, come tale, va retribuito considerato che questa interpretazione «è da sempre estesa nella giurisprudenza di legittimità a tutte le attività preparatorie e preliminari alla prestazione lavorativa (ordinanza 27799/2017, ordinanza n.12935/2018)» (Cass. Ord cit. pp-4-5).
Sul punto la Suprema Corte si diffonde alquanto, evidenziando le ragioni che l’hanno condotta a statuire in maniera analoga a quanto fatto nella precedente Sentenza 29/05/2017, n. 13466.
Gli Ermellini riportano quanto affermato per mezzo di tale ultima pronuncia, ossia che «ai fini della misurazione dell’orario di lavoro, l’art. 1, comma 2, lett. a), del d.lgs. n. 66 del 2003 attribuisce un espresso ed alternativo rilievo non solo al tempo della prestazione effettiva ma anche a quello della disponibilità del lavoratore e della sua presenza sui luoghi di lavoro; ne consegue che è da considerarsi orario di lavoro l’arco temporale comunque trascorso dal lavoratore medesimo all’interno dell’azienda nell’espletamento di attività prodromiche ed accessorie allo svolgimento, in senso stretto, delle mansioni affidategli, ove il datore di lavoro non provi che egli sia ivi libero di autodeterminarsi ovvero non assoggettato al potere gerarchico. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha considerato orario di lavoro il tempo impiegato dai dipendenti di un’acciaieria per raggiungere il posto di lavoro, dopo aver timbrato il cartellino marcatempo alla portineria dello stabilimento, e quello trascorso all’interno di quest’ultimo immediatamente dopo il turno)».
In sostanza il principio richiama la rilevanza della presenza e la disponibilità del lavoratore rispetto alla attività prestazionale in senso stretto, evidenziando il rilievo, ai fini dell’orario lavorativo, delle attività precedenti e consequenziali alle mansioni, rimanendo impregiudicato il diritto del datore di provare il contrario.
Tenuto conto dei principi richiamati, afferma la Cassazione che la Corte di Appello ha valutato come imprescindibili le attività per le quali i prestatori richiedono il pagamento delle differenze retributive.
Il datore, infatti, avrebbe scelto come organizzare la propria azienda anche dal punto di vista dei luoghi; sempre il datore ha adibito i prestatori alle mansioni da svolgere ordinandone i tempi rispetto all’uso della postazione informatica e richiedendo l’osservanza della regolamentazione impartita.
Considerate, dunque, le scelte aziendali e le modalità approntate affinché i dipendenti svolgessero le mansioni cui sono adibiti (scelta della sede, del percorso, delle postazioni e delle modalità di resa ecc.), la conseguenza che discende è che si tratti di «attività eterodiretta ed obbligatoria».
In ultimo non può essere dimenticato che fino al marzo 2013 quel tempo era ritenuto orario di lavoro per il quale veniva erogata la retribuzione.
La Corte passa, così, a scrutinare la seconda doglianza in forza della quale la Società afferma di aver dato prova del tempo percorso fino alla postazione, da quantificare in circa 2-3 minuti giornalieri, contrariamente a quanto sostenuto dai lavoratori che non avrebbero puntualmente quantificato il tempo ma lo avrebbero genericamente affermato e rivendicato in violazione, dunque, dell’art. 2697 cod. civ.
La Società evidenziava come la richiesta dei lavoratori fosse, generica, eccessiva e non suffragata da prove ma si limitasse a sussumere il detto periodo di tempo all’interno dell’orario di lavoro.
La Cassazione rigetta una siffatta prospettazione, ritenendola viziata da inammissibilità.
Per la Suprema Corte quanto lamentato con il secondo motivo intende sollecitare un accertamento dei fatti di causa che non è consentito al giudice di legittimità, inoltre viola l’onere di specificità ed autosufficienza previsto dagli articoli 366, n. 6 e 369, n.4 cod. proc. civ..
Prosegue, così, affermando che sentenza gravata non si occupa delle questioni introitate con il secondo motivo, in quanto parte ricorrente avrebbe dovuto «onde impedire una valutazione di novità della questione, allegare l’avvenuta deduzione di esse innanzi al giudice di merito». (Cass. Ord cit. p.7).
Gli Ermellini – concludendo l’esame del secondo motivo – evidenziano come il giudice dell’appello non abbia fatto applicazione del principio dell’onere della prova e dell’art. 2697 cod. civ., dal momento che ha operato una «valutazione di fatto» a fronte della richiesta di differenze retributive per il tempo minimo necessario a porre in essere le attività emarginate, richiesto dai lavoratori.
Sostanzialmente essendo stato richiesto il pagamento del tempo indispensabile nella misura minima la valutazione dell’eventuale eccedenza di tempo non rileva.
Infine, il terzo motivo è ritenuto, anch’esso, inammissibile in quanto non connesso sia dal punto di vista dei fatti che da quello di diritto con la sentenza e volto a censurare la statuizione per violazione dell’art. 2103 cod. civ. con riferimento al pagamento dell’indennità per il lavoro svolto nella fascia oraria 20.00-22.00.
Dal breve commento dell’Ordinanza in esame si può ben dire che rimane confermato l’indirizzo giurisprudenziale in virtù del quale va ritenuto orario di lavoro il periodo di tempo in cui il prestatore si trova all’interno della sede datoriale nel compimento di attività propedeutiche e accessorie alla esecuzione delle proprie mansioni e come tale deve essere retribuito.
Viene ribadito e rafforzato, in tal modo, quanto già espresso in diversi precedenti, tra i quali si ricorda, da ultimo, Cassazione 27008/2023.
Angelo Ventura, dottore di ricerca in diritto ed economia
Visualizza il documento: Cass., ordinanza 28 maggio 2024, n. 14848
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