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By Rivista Labor – Pacini Giuridica · 19 May 2024

Aggiornamenti, Licenziamenti

Sull’obbligo in capo al lavoratore pubblico di richiedere al proprio datore di lavoro l’autorizzazione per lo svolgimento dell’incarico extraistituzionale presso una cooperativa

Premessa

Ai fini dell’esame della recente sentenza della Sezione Lavoro della Cassazione n. 9801 dell’11 aprile 2024, che qui si segnala, è necessaria una breve ricostruzione del contesto normativo di riferimento.

Il tema delle incompatibilità e del divieto di cumulo di incarichi per i dipendenti pubblici è quanto mai complesso e articolato, ed è caratterizzato da una stratificazione di fonti normative, regolamentari e contrattuali che spesso si sovrappongono e si intersecano tra di loro.

L’art. 98 Cost. sancisce il principio di esclusività del dipendente pubblico, che si sostanzia nel dovere di dedicare interamente all’ufficio la propria attività lavorativa senza disperdere le proprie energie in attività esterne ed ulteriori rispetto al rapporto di impiego.

Nel campo del pubblico impiego, per le attività assolutamente incompatibili, l’art. 60 del d.P.R. n. 3 del 1957 prevede che “l’impiegato non può esercitare il commercio, l’industria, né alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro, tranne che si tratti di cariche in  società o enti per le quali la nomina è riservata allo Stato e sia all’uopo intervenuta l’autorizzazione del ministro competente”.

Tale previsione, dal punto di vista oggettivo, è ampia e tale da includere tutte le attività che presentino i caratteri della abitualità e professionalità idonee a disperdere all’esterno le energie lavorative del dipendente e ciò al fine di preservare queste ultime e tutelare il buon andamento della P.A. che risulterebbe turbato dall’espletamento da parte dei propri dipendenti di attività imprenditoriali caratterizzate da un nesso tra lavoro, rischio e profitto.

L’art. 60 del d.P.R. n. 3 del 1957, richiamato dall’art. 53, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001, prevede la decadenza dall’impiego, in ragione del previsto regime dell’incompatibilità assoluta, in ordine al quale non occorre valutare l’esistenza di riflessi negativi sul rendimento e sull’osservanza dei doveri d’ufficio, essendo sufficiente, per la preminenza dell’interesse pubblico, la mera potenzialità del conflitto, senza che rilevi l’eventuale conoscenza del fatto da parte dell’Amministrazione, stante l’indisponibilità della materia (Cass. , n. 22188 del 2021).

Una specifica disciplina derogatoria è dettata dall’art. 61 del medesimo d.P.R. n. 3 del 1957: tale norma ha, difatti, escluso l’incompatibilità assoluta prevista per gli incarichi conferiti dalle società con fine di lucro nel caso delle società cooperative: l’assunzione di cariche sociali in società cooperative è possibile, stante la finalità anche mutualistica, a prescindere dalla natura e dall’attività della cooperativa; per la giurisprudenza, nel caso in cui la società cooperativa persegua oltre allo scopo mutualistico anche quello di lucro, occorrerà valutare la prevalenza dello scopo mutualistico e l’impegno del pubblico dipendente nell’assolvimento dell’incarico.

Busico (in Dipendenti pubblici Incompatibilità e attività extraistituzionali, Giuffrè 2021, pag. 15) ci ricorda che nella formulazione iniziale l’applicazione della norma era limitata solo alle cooperative fra dipendenti statali, ma, a seguito della modifica apportata dall’art. 18, l. 31 gennaio 1992, n. 59, è stata estesa a tutte le società cooperative, stante la finalità mutualistica che le caratterizza.

L’assunzione di cariche sociali è consentita, qualunque sia la natura e l’attività della cooperativa, ma ciò non esime il dipendente pubblico dal richiedere l’autorizzazione all’amministrazione di appartenenza.

L’art. 53 del d.lgs.30 marzo 2001, n. 165, regola in maniera analitica lo svolgimento di incarichi esterni-retribuiti e non – da parte dei dipendenti pubblici, imponendo una griglia di doveri ed obblighi non soltanto a questi ultimi ma, in primis, alle amministrazioni che li conferiscono.

La norma chiarisce cosa si debba intendere per incarichi extraistituzionali, ricomprendendovi tutte quelle attività, anche occasionali, che comunque prevedono un compenso, salvi i casi di esclusione riconducibili alla peculiare natura dell’attività che si intende svolgere, in quanto espressione di diritti costituzionalmente tutelati, quali la libertà di insegnamento o i diritti sindacali, o connotati dalla mancanza di interesse economico (assenza di un compenso). Il regime giuridico ordinario per poter legittimamente svolgere un’attività extraistituzionale è il conseguimento di un’autorizzazione preventiva da parte della propria amministrazione, la mancanza della quale determina una serie di conseguenze nei confronti di tutti i soggetti interessati alla vicenda. Se l’incarico retribuito è conferito da una pubblica amministrazione, ad esempio, ovviamente diversa da quella di appartenenza dell’interessato, il provvedimento di conferimento, ai sensi dell’art. 53, comma 8, costituisce infrazione disciplinare ed è nullo di diritto.

Il comma 7 dell’art.53 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (come modificato dall’art. 1, comma 42, della legge n. 190/2012) dispone che “i dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall’amministrazione di appartenenza. Ai fini dell’autorizzazione, l’amministrazione verifica l’insussistenza di situazioni, anche potenziali , di conflitto di interessi….In caso di inosservanza del divieto, salve le più gravi sanzioni e ferma restando la responsabilità disciplinare, il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell’erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell’entrata del bilancio dell’amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti”.

 Il successivo comma 7-bis, introdotto a sua volta dal medesimo art. 1, comma 42, legge n.190/2012, precisa che “l’omissione del versamento del compenso da parte del dipendente pubblico indebito percettore costituisce ipotesi di responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti”.

La giurisprudenza ha costantemente escluso la legittimità di autorizzazione postuma, in quanto ontologicamente incompatibile con la finalità dell’autorizzazione preventiva che è quella di verificare, necessariamente ex ante, l’insussistenza, anche potenziale, di conflitti di interesse e valutare l’incidenza dell’incarico con l’attività di servizio (si veda Serra, Conferimento incarichi ai dipendenti pubblici: autorizzazione postuma dell’amministrazione di appartenenza, in Lexitalia, 2,2021); l’esercizio da parte di un dipendente pubblico di attività extra-istituzionale deve essere sempre autorizzato dall’amministrazione in cui lavora: secondo i giudici contabili non ha valore di autorizzazione il silenzio-assenso dell’Amministrazione di appartenenza (Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la regione Veneto, sentenza 13 settembre 2017, n. 201).

Dalla lettura combinata e complessiva degli artt.53 e 60 del d.P.R. n. 3 del 1957 deriva, quindi, che, in materia di incompatibilità dei dipendenti pubblici, si possono distinguere tre ipotesi: 1) attività assolutamente incompatibili: sono le attività inibite, che non si possono esercitare nemmeno con autorizzazione(art.60 del d.P.R. n. 3 del 1957 etc.); 2) attività consentite: sono le attività per cui non è necessaria l’autorizzazione (indicate dall’art. 53, comma 6, del d.lgs. n. 165 del 2001); 3) attività consentite previa autorizzazione: tutte le altre attività comprese nella sfera di applicabilità dell’art. 53 del d.P.R. n. 3 del 1957 ( i casi possono essere molteplici).

Accanto ad un regime di carattere generale, applicabile a tutti i dipendenti pubblici, è stato mantenuto in vita un quadro normativo parallelo e speciale per alcune categorie di dipendenti, evidentemente dotate – nella visione del legislatore ­- di caratteristiche tali da giustificare una disciplina settoriale e, in alcuni casi, ampiamente derogatoria o comunque più flessibile.

La materia delle incompatibilità dei dipendenti del servizio sanitario nazionale ha una disciplina speciale: l’art. 53 richiama l’art. 4, comma 7, della legge n. 412 del 1991, che stabilisce che con il Servizio sanitario nazionale può intercorrere un unico rapporto di lavoro e che tale rapporto è incompatibile con ogni altro rapporto di lavoro dipendente, pubblico o privato, e con altri rapporti anche di natura convenzionale con il Servizio sanitario nazionale nonché che il rapporto di lavoro con il Servizio sanitario nazionale è altresì incompatibile con l’esercizio di altre attività o con la titolarità o con la compartecipazione delle quote di imprese che possono configurare conflitto di interessi con lo stesso.

La persistente vigenza della norma è confermata dall’art. 3-quater del d.l. n. 127 del 2021, conv. legge n. 161 del 2021 che ha previsto al comma 1 che, fino al 31 dicembre 2025, agli operatori delle professioni sanitarie di cui all’articolo 1 della legge 1° febbraio 2006, n. 43, appartenenti al personale del comparto sanità, al di fuori dell’orario di servizio non si applicano le incompatibilità di cui all’articolo 4, comma 7, della legge 30 dicembre 1991, n. 412, e all’articolo 53 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165.

Il legislatore ha, inoltre, dettato una specifica e peculiare disciplina in tema di esercizio di attività libero professionale da parte dei dirigenti medici volta all’incentivazione di quella intramuraria.

Breve riepilogo dei fatti di causa

Un infermiere professionale, presso una Azienda Sanitaria marchigiana, era stato licenziato, tra l’altro, per aver svolto, senza prima chiederne autorizzazione, attività extraistituzionale presso una cooperativa esterna (di cui era stato presidente del C.d.A.).

Il lavoratore in questione aveva, pertanto, adito l’autorità giudiziaria: sia il giudice di primo grado sia la Corte d’Appello avevano ritenuto legittimo il licenziamento intimatogli dall’Azienda sanitaria.

L’infermiere professionale impugnava, quindi, la sentenza della Corte d’Appello, sostenendo, tra l’altro, che lo svolgimento di attività extraistituzionale era noto al datore di lavoro, atteso che aveva chiesto il part-time deducendo anche lo svolgimento degli incarichi direttivi presso la Cooperativa, e che l’art. 61 del d.P.R.  n. 3/1957 esclude l’incompatibilità dell’attività extraistituzionale quando questa è prestata in favore, come nel caso specifico, delle società cooperative.

La sentenza della Corte di Cassazione n. 9801 dell’11 aprile 2024

La sentenza che qui si commenta, nel rigettare il ricorso del lavoratore, ha affermato i principi di diritto di cui appresso.

Innanzitutto, viene ricordato, nella pronuncia, che l’autorizzazione da parte dell’amministrazione di appartenenza non può essere conferita per facta concludentia, avuto riguardo alla sequenza procedimentale prevista dal legislatore (Cass., n. 29348 del 2022).

Per i giudici di legittimità, l’accettazione di cariche sociali in una società cooperativa, non incorre nella incompatibilità assoluta di cui all’art. 60 del d.P.R. n. 3 del 1957, in ragione della deroga prevista dall’art. 61 del medesimo d.P.R. Ciò, tuttavia, non esclude che il lavoratore debba chiedere l’autorizzazione allo svolgimento dell’incarico extraistituzionale al datore di lavoro.

Trova applicazione, precisa il Collegio, l’art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001, che costituisce disciplina volta a garantire l’obbligo di esclusività che ha primario rilievo nel rapporto di impiego pubblico in quanto trova il proprio fondamento costituzionale nell’art. 98 Cost. con il quale, nel prevedere che i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione, si è inteso rafforzare il principio di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione di cui all’art. 97 Cost.

Il lavoratore pubblico, evidenziano, gli Ermellini, concorre all’attuazione della disciplina sulla incompatibilità, cumulo di impieghi e incarichi, e la norma di riferimento per quest’ultimo, va individuata nell’art. 53, comma 7, che prende in esame le conseguenze per il lavoratore della mancanza di autorizzazione a svolgere l’incarico extraistituzionale. Il carattere gratuito dell’attività non esclude, si legge nella pronuncia de qua, la necessità della valutazione di compatibilità e dunque dell’autorizzazione, come stabilito dall’art. 53, comma 7, per gli incarichi retribuiti.

La Cassazione, nella sentenza che si annota, osserva, altresì, che, quanto al Comparto sanità, l’art. 53 richiama l’art. 4, comma 7, della legge n. 412 del 1991, che, tra l’altro, stabilisce che il rapporto di lavoro con il Servizio sanitario nazionale è altresì incompatibile con l’esercizio di altre attività o con la titolarità o con la compartecipazione delle quote di imprese che possono configurare conflitto di interessi con lo stesso.

La mancanza della comunicazione al datore di lavoro, ai fini della valutazione di compatibilità funzionale all’autorizzazione dell’incarico extraistituzionale consistente nella carica sociale di Presidente del Consiglio di amministrazione di una società cooperativa, osservano i giudici della Suprema Corte, dà luogo, pertanto, a responsabilità disciplinare.

Gli Ermellini, con la sentenza de qua, ribadiscono, infine, che , in tema di licenziamento per giusta causa, anche in materia di pubblico impiego contrattualizzato, è da escludere qualunque sorta di automatismo a seguito dell’accertamento dell’illecito disciplinare, sussistendo l’obbligo per il giudice di valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all’intensità del profilo intenzionale, e, dall’altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta(Cass. 18858 del 2016).

Conclusioni

La normativa, nel suo insieme, come abbiamo visto, non vieta, dunque, l’espletamento di incarichi extraistituzionali retribuiti, ma li consente solo ove gli stessi siano conferiti dall’Amministrazione di provenienza ovvero da questa preventivamente autorizzati, rimettendo al datore di lavoro pubblico la valutazione della legittimità dell’incarico e della sua compatibilità, soggettiva e oggettiva, con i compiti propri dell’ufficio.

Lo scopo dell’art. 53, che vieta, come detto, ai dipendenti delle P.A. con rapporto di lavoro a tempo pieno l’espletamento di incarichi retribuiti, anche occasionali, non compresi nei compiti e nei doveri d’ufficio, per i quali sia corrisposto, sotto qualunque forma, un compenso, salvo che lo svolgimento dell’incarico sia stato preventivamente autorizzato, è , evidentemente, quello di garantire l’imparzialità, l’efficienza e il buon andamento della pubblica amministrazione nel rispetto dei principi sanciti dagli artt. 97 e 98 Cost. e di evitare che il pubblico dipendente possa svolgere incarichi ulteriori rispetto a quelli che discendono dai propri doveri istituzionali, distogliendolo da essi ovvero creando forme autorizzate di concorrenza soggettiva in capo al medesimo soggetto interessato, e procurandogli un vantaggio economico che non ne giustificherebbe, se stabile e duraturo e quindi dotato dei caratteri della prevalenza e continuità, la permanenza all’interno della pubblica amministrazione, con i conseguenti rilevanti oneri ad essa attribuiti.

Dionisio Serra, cultore di diritto del lavoro nell’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”

Visualizza il documento: Cass., 11 aprile 2024, n. 9801

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