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Ancora sulla nozione legale di giusta causa e sulla sua interazione con le norme disciplinari del CCNL in presenza di condotta penalmente rilevante: il cuoco sbadato che mal conserva gli alimenti destinati ai clienti

19 Maggio 2024|

Si legge dalla narrativa della sentenza che si annota (Cass. 13/02/2024, n. 3927), che un cuoco inquadrato al I liv. del CCNL Turismo veniva licenziato per giusta causa a seguito di una ispezione dei carabinieri del nucleo antisofisticazioni (NAS) che accertavano la mala conservazione di alimenti destinati ai clienti della struttura, con conseguente decreto penale di condanna a carico del datore di lavoro.

Tra gli altri profili, nella motivazione del licenziamento, il datore evidenziava che il rilievo penale della condotta sanzionata era circostanza idonea ad escludere che l’inadempimento contestato potesse essere valutato come lieve o tenue, atteso che i fatti come quelli oggetto dell’appunto mosso al lavoratore: “sono stati già valutati in termini di assoluta gravità dal legislatore che, al fine di proteggere il bene giuridico – di primario rilievo costituzionale della salute pubblica – ha dettato norme in materia di igiene e sicurezza alimentare presidiando con sanzione penale (…) non soltanto il comportamento idoneo a ledere il bene protetto ma anche alcuni tra i comportamenti potenzialmente atti a porre in pericolo lo stesso (…) come appunto il detenere prodotti alimentari in cattivo stato di conservazione ai fini della vendita”.

Il lavoratore si rivolgeva alla S.C. evidenziando, tra gli altri profili, che la condotta contestata poteva, al più, essere ricondotta alla fattispecie dell’art. 138, lett. f) del C.C.N.L. Turismo PP.EE. che punisce con la sanzione conservativa gli “atti che portino pregiudizio… all’ igiene ed alla sicurezza dell’azienda“.

Nel ripercorrere approdi giurisprudenziali noti, la S.C. respinge il ricorso del lavoratore evidenziando come la nozione di “giusta causa” tratteggiata dall’art. 2119 c.c. (come la nozione di proporzionalità della sanzione disciplinare) delinei un modulo generico, a struttura aperta, che necessariamente deve essere specificato dall’apporto interpretativo del giudice il quale, da un lato, deve valorizzare fattori esterni relativi alla coscienza generale (facendo anche riferimento al c.d. minimo etico ovvero all’insieme di valori basilari, condivisi ed esigibili comunque, appartenendo alla coscienza sociale comune) e dall’altro, considerare i principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. La ricostruzione in concreto della nozione di giusta causa (come accade per il notevole inadempimento cui allude la fattispecie del giustificato motivo soggettivo di licenziamento ex art. 3, L. 604/1966) rientra nella valutazione di fatto devoluta al giudice di merito e non è censurabile in sede di legittimità se non per vizio di motivazione.

Si richiamano, in proposito, tra le tante: Cass., 15/04/2005, n. 7838, in MGL, 2005, 839, con nota di PIZZUTI, Il controllo della cassazione sulla giusta causa di licenziamento; Cass.,26/05/2014, n. 11728, per un’ipotesi di giusta causa relativa al contratto di agenzia; Cass., 08/04/2016, n. 6901; Cass., 23/09/2016, n. 18715, in RIDL,2017, II, 268, con nota di MUGNECO, La giusta causa di licenziamento tra tecnica del precedente e certezza del diritto; Cass., 20/05/2019, n. 13534, per la quale la valutazione del giudice di merito non può essere censurata in sede di legittimità se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza del giudizio di sussunzione del fatto concreto, siccome accertato, nella norma generale, ed in virtù di una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli standard, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale.; Cass. 09/03/2023, n. 7029 che, ad esempio, ha confermato il licenziamento di un lavoratore che aveva schernito con espressioni sconvenienti una collega per il suo orientamento sessuale).

In questa prospettiva, Cass. 28/03/2023, n. 8737 (ed in termini, ex multis, anche Cass., 21/04/2022, n. 12789) ha evidenziato che l’art. 2119. c.c., costituisce una norma elastica che tratteggia una disposizione di contenuto precettivo ampio e polivalente destinato ad essere progressivamente precisato, nell’estrinsecarsi della funzione nomofilattica della S.C., fino alla formazione del diritto vivente mediante puntualizzazioni, di carattere generale ed astratto.

La Corte ha anche precisato che l’operazione valutativa, compiuta dal giudice di merito nell’applicare clausole generali come quella dell’art. 2119 c.c., non sfugge ad una verifica in sede di giudizio di legittimità, poiché l’operatività in concreto di norme di tale tipo deve rispettare criteri e principi desumibili dall’ordinamento (tra le altre, Cass., 14/03/2013, n. 6501, in RIDL,2013, II, 895, con nota di RATTI, Alla ricerca dei fondamenti teorici del sindacato di legittimità sulla giusta causa di licenziamento, relativa ad un caso di licenziamento comminato dopo segnalazioni anonime).

In effetti, l’attività di integrazione del precetto normativo di cui all’art. 2119 c.c., compiuta dal giudice di merito – ai fini della individuazione della giusta causa di licenziamento – non può essere censurata in sede di legittimità se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza del giudizio di sussunzione del fatto concreto, siccome accertato, nella norma generale, ed in virtù di una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli standard, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale, mentre chi ricorre per cassazione non può limitarsi a contrapporre una ricostruzione e valutazione dei fatti diversa rispetto a quella posta a base della decisione impugnata (v., per tutte, Cass. 14/06/2022, n. 19181 e 21/04/2022, n. 12789).

Per indurre l’intervento del giudice di legittimità, dunque, la contestazione della sentenza di merito deve necessariamente contenere una specifica denuncia di incoerenza del giudizio rispetto agli “standards” esistenti nella realtà sociale e non deve tradursi in una non accoglibile richiesta di accertamento della concreta ricorrenza degli elementi fattuali che integrano il parametro normativo (una sorta di mera revisione del giudizio, insomma), visto che quell’accertamento è riservato ai giudici di merito (così Cass. 26/03/2018, n. 7426), come il giudizio di proporzionalità (Cass. n. 19181/2022 cit.; in dottrina, GIUBBONI, Licenziamento disciplinare e sindacato di proporzionalità nella giurisprudenza di legittimità, in LDE, 22.06.2023)

Lo scrutinio della giusta causa deve dunque essere operato con riferimento agli aspetti concreti inerenti alla natura e alla utilità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del lavoratore (considerando ad esempio l’assenza di un controllo diretto ed assiduo sul dipendente), al nocumento eventualmente arrecato al datore (che non è mai soltanto “quantitativo”), alla portata soggettiva dei fatti stessi, ossia alle circostanze del loro verificarsi, ai motivi e all’intensità dell’elemento intenzionale o di quello colposo, oltre che del “disvalore ambientale” che la condotta abbia assunto avuto riguardo alla posizione professionale rivestita dall’incolpato ed all’impatto sugli altri dipendenti dell’impresa, in un giudizio prognostico di affidabilità nella correttezza dei futuri comportamenti del lavoratore: “occorre tenere anche conto se tali fatti siano suscettibili di far ritenere che la prosecuzione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, con particolare attenzione alla condotta del lavoratore che denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti e a conformarsi ai canoni di buona fede e correttezza” (così: Cass. 30/05/2023, n. 15140).

Infine, si è precisato che l’inadempimento imputato al lavoratore deve essere valutato in senso accentuativo rispetto alla regola generale della “non scarsa importanza” di cui all’art. 1455 c.c., sicché l’irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata soltanto in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali (legge n. 604 del 1966, art. 3) ovvero addirittura tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto (art. 2119 c.c.).

Sulla valutazione del giudice, indubbia rilevanza assume la qualificazione in termini sanzionatori che la contrattazione collettiva faccia delle mancanze addebitate, qualificazione che, tuttavia, non preclude al giudice una autonoma valutazione anche qualora riscontri l’astratta corrispondenza dell’infrazione contestata alla fattispecie tipizzata contrattualmente. Nell’ambito dei rapporti tra previsioni della contrattazione collettiva e fatti posti a fondamento di licenziamenti ontologicamente disciplinari la contrattazione collettiva non è infatti una fonte vincolante in senso sfavorevole per il dipendente. Così, anche quando si riscontri la corrispondenza del comportamento del lavoratore alla fattispecie tipizzata dal CCNL come ipotesi che giustifica il licenziamento, stante la fonte legale della nozione di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo, deve essere effettuato in ogni caso un accertamento in concreto che consideri la gravità del comportamento e la proporzionalità tra lo stesso e la sanzione espulsiva irrogata (così: Cass. 12/11/2021, n. 33811).

D’altro canto, che il potere del giudice di valutare la legittimità del licenziamento disciplinare, quanto alla proporzionalità della sanzione, posso esercitarsi anche attraverso le previsioni contenute nei contratti collettivi, trova un fondamento normativo nell’art. 30, co. 3, L. n. 183/2010 secondo il quale: “nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento, il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presentine i contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi ovvero nei contratti individuali di lavoro ove stipulati con l’assistenza e la consulenza delle commissioni di certificazione di cui al titolo VIII D. Lgs. n. 276/2003, e succ. modif.” (v. da ultimo Cass. 11/04/2022, n. 11665, che si può leggere in Labor, 19/05/2022, con nota di POSO, Art. 18 dello statuto dei lavoratori. Dal co. 4 al co. 5, viaggio di andata e ritorno. La «discrezionalità necessaria» dei giudici in materia di licenziamenti disciplinari, le clausole collettive elastiche e l’incapacità delle parti sociali a (o la loro volontà di non) tipizzare gli illeciti dei lavoratori, cui si rinvia anche per gli ulteriori riferimenti).

Occorre tuttavia ricordare, con Cass. 11/05/2016, n. 9635, che la giusta causa di licenziamento, quale fatto “che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto“, è una nozione che la legge configura con una disposizione ascrivibile alla tipologia delle cosiddette clausole generali e come tale delinea un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama.

Si legge poi nella motivazione: “Né contrari argomenti (sulla esistenza di una giusta causa di recesso) possono ritrarsi dalla circostanza (pure valorizzata dalla Corte di merito) secondo cui il CCNL tipizzerebbe come ipotesi di giusta causa di recesso soltanto condotte non solo verbalmente, ma anche fisicamente aggressive: la “giusta causa” di licenziamento è nozione legale e il giudice non può ritenersi vincolato dalle previsioni dettate al riguardo dal contratto collettivo, potendo e dovendo ritenere la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile, ove tale grave inadempimento o tale grave comportamento abbia fatto venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore, e potendo e dovendo specularmente escludere che il comportamento del lavoratore costituisca di fatto una giusta causa, pur essendo qualificato tale dal contratto collettivo, in considerazione delle circostanze concrete che lo hanno caratterizzato”.

In questi  termini, v., anche, Cass., 7/11.2018, n. 28492 che ha ritenuto “legittimo il licenziamento irrogato al lavoratore resosi responsabile di aggressione fisica ai danni di un collega, pur non essendo tale condotta riconducibile al delitto di rissa, per il quale il CCNL di settore contemplava espressamente la sanzione espulsiva, avuto riguardo al particolare disvalore del fatto, denotato dalle modalità attuative, dall’entità delle lesioni e dal clamore suscitato dalla vicenda nell’ambiente di lavoro”, citata da HUGE, Ancora sul grado di vincolatività della tipizzazione delle clausole del contratto collettivo, sempre in Labor, 8/09/2023).

Per Cass. 12/02/2016, n. 2830: “L’elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei contratti collettivi ha, al contrario che per le sanzioni disciplinari con effetto conservativo, valenza meramente esemplificativa, sicché non preclude un’autonoma valutazione del giudice di merito in ordine all’idoneità di un grave inadempimento, o di un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile, a far venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore” (conforme: Cass.19/01/2022, n. 1665, cit. supra).

In sostanza, in materia disciplinare, l’apprezzamento della giusta causa di recesso rientra nell’attività sussuntiva e valutativa del giudice che è tenuto a valorizzare elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie, coerenti con la scala valoriale del contratto collettivo, oltre che con i principi radicati nella coscienza sociale, idonei a ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario (cfr., tra le altre, Cass.7/11/2018 n. 28492, n. 9396; Cass. civ., sez. lav., 26/10//2018, n. 27238).

Il principio subisce un’eccezione ove la previsione negoziale ricolleghi ad un determinato comportamento giuridicamente rilevante solo una sanzione conservativa. Secondo l’indirizzo consolidato (v. Cass. n. 11665/2022, più volte citata, ed i precedenti ivi richiamati), il datore di lavoro non può irrogare un licenziamento disciplinare quando questo costituisca una sanzione più grave di quella prevista dalla fonte collettiva per una determinata infrazione. Condotte che pur astrattamente sarebbero suscettibili di integrare una giusta causa o un giustificato motivo soggettivo di recesso ai sensi di legge non possono rientrare nel relativo novero se l’autonomia collettiva le ha espressamente escluse, prevedendo per esse sanzioni meramente conservative.

Restando tuttavia la quaestio che si pone quando il fatto è sussumibile nelle c.d. clausole generali o elastiche del contratto collettivo che ricollegano la sanzione conservativa a comportamenti descritti in termini generali ed astratti visto che: “in tema di licenziamento disciplinare, al fine di selezionare la tutela applicabile tra quelle previste dall’art. 18 commi 4 e 5 della legge n. 300 del 20 maggio 1970, come novellata dalla legge n. 92 del 28 giugno 2012, è consentita al giudice la sussunzione della condotta addebitata al lavoratore e in concreto accertata giudizialmente nella previsione contrattuale che punisca l’illecito con sanzione conservativa anche laddove tale previsione sia espressa attraverso clausole generali o elastiche (Cass. ord. 23/02/2023, n. 5599, sempre in Labor, 1/4/2023, con nota di MAURELLI, L’interpretazione estensiva delle tipizzazioni conservative può consentire la reintegra ai sensi dell’art. 18, comma 4, Stat. lav., a differenza delle clausole elastiche dei contratti collettivi e dell’interpretazione analogica sa commento di o stesso senso; e Cass. 28/06/2022, n. 20780, ivi, 10/08/2022, con nota di NEGRI, “La tutela reintegratoria di cui all’art. 18, comma 4, st. lav., è applicabile anche laddove la sanzione conservativa sia prevista da norme collettive contenenti clausole generali o elastiche”; Cass. n. 11665/2022, già citata).

La sentenza in commento (Cass. 13/02/2024, n. 3927) ha ritenuto che la Corte d’Appello avesse fatto buon governo dei principi fin qui ricordati, ancorando la gravità della condotta e la connessa proporzionalità della sanzione espulsiva ad una duplice caratteristica: l’essersi la condotta concretizzata nella violazione di regole cautelari, di igiene e sicurezza, poste a tutela di un bene giuridico primario, quale la salute pubblica; il rilievo penale della condotta oggetto dell’accertamento ispettivo, a seguito del quale è stato emesso nei confronti del legale rappresentante della società decreto penale di condanna per la violazione dell’art. 5, lett. d) L. 283 del 1962 punita con l’ammenda.

Per valorizzare la gravità della condotta, la Corte ha ritenuto che correttamente il giudice d’appello avesse valorizzato come il legislatore, al fine di predisporre una tutela ampia ed effettiva del bene salute, abbia inteso vietare, presidiando il divieto con sanzione penale, comportamenti potenzialmente idonei a mettere in pericolo la salute pubblica, come, appunto, la detenzione a fini di vendita o di somministrazione al pubblico di alimenti in cattivo stato di conservazione, evidenziando al contempo il ruolo di responsabilità rivestito dal lavoratore sul quale incombeva il dovere di rigorosa osservanza delle disposizioni richiamate.

Peraltro, secondo la S.C.: “la pericolosità per la salute pubblica ed il rilievo penale delle violazioni realizzate, quali caratteristiche della condotta su cui si fonda il giudizio di gravità espresso dai giudici di appello, costituiscono, nell’architettura della sentenza impugnata, la ragione che preclude di sussumere l’addebito nelle previsioni di illecito disciplinare cui il contratto collettivo collega una sanzione conservativa” pienamente condividendo la scelta del giudice di secondo grado secondo cui “proprio il rilievo penale della condotta sanzionata è circostanza idonea ad escludere che l’inadempimento contestato possa essere valutato come lieve o tenue“, e la sua riconducibilità alle fattispecie punibili con sanzioni conservative in base al contratto collettivo, del resto correlate ad un livello di inadempimento sensibilmente inferiore alla violazione di norme idonea a mettere in pericolo la salute degli utenti.

L’inosservanza di disposizioni dettate al fine di prevenire rischi per la salute delle persone è idonea ad integrare la fattispecie di cui all’art. 2119 c.c. e tale valutazione è, secondo la Cassazione, coerente rispetto ai parametri normativi di giusta causa e di proporzionalità in ragione del rilievo costituzionale del bene salute e delle conseguenze penali della condotta medesima.

Michele Palla, avvocato in Pisa

Visualizza il documento: Cass., 13 febbraio 2024, n. 3927

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