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Patto di prova “nullo” e licenziamento, quale tutela? Brevi note a seguito della sentenza n. 128/2024 della Corte costituzionale

25 Novembre 2024|

A leggere le ricche argomentazioni, oltreché il dispositivo, dell’attesissima sentenza della Corte Costituzionale, 16 luglio 2024, n. 128, quasi da sé viene condurre, ancorché su questioni avulse il suo scrutinio, qualche riflessione ulteriore, ma sempre nell’ottica di “ricomposizione” coerente di una materia d’importanza essenziale (così come sollecitato al legislatore. Cfr. C. Cost. 16 luglio 2020, n. 150 e 22 luglio 2022, n. 183), come è quella della disciplina contro i licenziamenti illegittimi.

In specie, dall’ordito della pronuncia sembrano, in effetti, emergere, anche profili d’incidenza riguardo alle tutele da applicare al caso di recesso intimato per mancato superamento della “prova” (art. 2096 c.c.), qualora il “patto”, per ragioni di varia natura, come l’assenza di forma scritta (sul fatto che l’espressione «deve risultare da atto scritto», nell’ottica di tutelare il contraente più debole, si traduca in requisito formale ad substantiam e non ad probationem, Cass., Sez. Un., 9 marzo 1983, n. 1756), il difetto di specificità delle mansioni soggette a verifica (Cass., 19 agosto 2005, n. 17045) o un “esperimento” in precedenza già avvenuto (sui limiti al “controllo”, in caso di reiterazione del contratto, delle qualità professionali, del comportamento e della personalità complessiva del lavoratore, in relazione all’adempimento della prestazione, Cass., 18 febbraio 1995, n. 1741; in ogni caso, vedi quanto previsto dall’art. 7, comma 2 d.lgs. 27 giugno 2022, n. 104), si riveli geneticamente “nullo”.

Una fattispecie, come noto, ancora irrisolta e oggetto di dibattito (Cfr. GIGLIO, Il patto di prova inefficace nel “contratto a tutele crescenti”: quale sanzione per il licenziamento ad nutum?, in LDE, 2-2021), in primis, perché testualmente non trattata, né dall’art. 18 l. 20 maggio 1970, n. 300, né dal d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23; da secondo e a maggior ragione, perché nemmeno inclusa nell’elencazione – di certo non tassativa – fornita dalla Consulta, con la sentenza del 22 febbraio 2024, n. 22, a proposito delle nullità c.d. “virtuali” (comma 1, art. 1418 c.c.), le quali, dunque, continuano a consentire, anche per i lavoratori assunti con decorrenza 7 marzo 2015 e seppur “inespresse”, l’accesso al rimedio della reintegrazione c.d. “piena”.

Ma venendo agli sviluppi della pronuncia n. 128 che incentivano, su questa via, una qualche considerazione, si potrebbe direi che due sono, in modo particolare, i passaggi di maggior pertinenza.

Al punto 8 del “Considerato in diritto”, dove la Corte, ancor più diffusamente rispetto alle sentenze dell’1 aprile 2021, n. 59 e 19 maggio 2022, n. 125, si sofferma sulla rilevanza della «regola legale [di] necessaria causalità del recesso, prima ancora […] della sua necessaria giustificatezza», definita, nondimeno, quale «garanzia specifica del lavoro subordinato»; il che, in effetti, rimanderebbe istintivamente a riflettere che non c’è «contrasto più stridente» a questo principio (per usare l’espressione di C. Cost. 1° aprile 2021 cit.) e ben oltre il fatto rivelatosi insussistente, che quello di un licenziamento intimato senza la benché “minima” motivazione (v. art. 2, comma 2 l. 15 luglio 1966, n. 604) e in assenza di quel regime di c.d. “libera recedibilità”, eccezionalmente acconsentito alle parti per effetto della clausola ex art. 2096 c.c.

Ma anche nell’esito del dispositivo, allorquando conformandosi all’art. 18 versione post “Fornero”, la Corte Costituzionale effettua un sostanziale “riallineamento” di tutela, cioè quella reintegratoria “attenuata”, in tutti casi di accertata insussistenza del fatto fondante il recesso, sia esso dal datore di lavoro qualificato come “disciplinare” ovvero “economico”.

Infatti, partendo da questo secondo aspetto, occorre rammentare come l’ultima Cassazione a pronunciarsi sulla fattispecie in parola, la sentenza 14 luglio 2023, n. 20239, avesse tratto le sue conclusioni interpretative, anche in ragione dell’inequivoca “divaricazione” dei rimedi prevista al d.lgs. 4 marzo 2015 cit., così come indicato nella legge delega (Cfr. art. 1, comma 7, lett. c) l. 10 dicembre 2014, n. 183).

A tal riguardo, basti, qui, ricordare, come in detta sentenza, pur evidenziando, da un lato, che una risoluzione fondata sull’errata supposizione di validità del patto di prova, «equivale […] ad un ordinario licenziamento soggetto alla verifica giudiziale [,cioè] alle limitazioni connesse al principio di causalità e tipicità del licenziamento» e che in specie, ovviamente, «alcune delle cause tipiche per le quali può essere intimato il licenziamento» erano da ritenersi presenti (con riferimento alle “cause” di cui all’art. 1 l. l. 15 luglio 1966 cit.), il Supremo Collegio aveva, dall’altro, pure stigmatizzando, che il potere datoriale di recesso, a suo avviso, «non risulta[va] radicalmente insussistente».

Di conseguenza, se rispetto all’art. 18, assumendo quanto già stabilito nel precedente – per argomentazioni, tutt’altro che dirimente – del 3 agosto 2016, n. 16214, poteva ritenersi applicabile la tutela della reintegra c.d. “debole”, di cui il comma 4, risultando «il richiamo al mancato superamento della prova […] totalmente inidoneo a costituire giusta causa o giustificato motivo», analogo approdo non era, invece, consentito, in relazione alla disciplina prevista dalle c.d. “Tutele crescenti”.

Invero, ad avviso della Corte di legittimità, un primo ostacolo era, giustappunto, da rinvenirsi nel «disallineamento delle tutele apprestate per il licenziamento disciplinare e per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo [,dove] il tema della corretta qualificazione del vizio del recesso datoriale diviene ineludibile».

Ragione per la quale, non essendo nemmeno la fattispecie in commento «assimilabile a quella in cui, già a livello formale nella comunicazione del recesso, manchi la indicazione di qualsivoglia ragione giustificativa [,] Laddove, invece, […] nella ipotesi in esame, una causale risulti comunque enunciata nella comunicazione di recesso» (i.e. il riferimento all’art. 2096 c.c.), secondo la Corte di Cassazione tale casistica d’illegittimo licenziamento ad nutum, «non riconducibile ad alcuna delle specifiche ipotesi di cui al Decreto Legislativo n. 23 del 2015, articolo 3, comma 2, nelle quali è prevista la reintegrazione, resta assoggettato alla regola generale della tutela indennitaria».

Cosicché, volendosi mantenere sul confinato sentiero di quest’ultima sentenza, esplicitamente ostativa all’ipotesi di “nullità” del recesso, «difettando nell’ordinamento un’espressa previsione che lo preveda e neppure essendo possibile pervenire su base ricostruttiva dei principi generali», l’enigma potrebbe dirsi risolto, poiché per effetto del già menzionato “riallineamento” dei rimedi operato dalla sentenza n. 128, anche per gli assunti post 6 marzo 2015 dovrebbe, a quel punto, trovare applicazione l’ipotesi “attenuata” di reintegrazione in azienda.

Senonché, a meglio ponderare, una simile “soluzione” sì presenta come non del tutto soddisfacente, quantomeno per due ordini di ragioni.

Una prima, di carattere “testuale”, non potendosi negare come, tanto la disciplina di cui al comma 4, art. 18, quanto quella di cui al comma 2, art. 3 d.lgs. 4 marzo 2015 cit., presuppongono tutte e indefettibilmente, un «fatto contestato» ovvero «posto a base del licenziamento» ossia un elemento ontologicamente assente nel recesso ex art. 2096 c.c., tanto più se si considera la possibilità che il medesimo sia intimato in forma orale (Cfr. Cass., 12 dicembre 2017, n. 29753); con l’ulteriore effetto paradosso di ammettere, in tale guisa, una nuova species di licenziamento “verbale” dotato di efficacia (vedi la generale “inefficacia” prescritta agli art. 2, comma 3 l. 15 luglio 1966, n. 604; art. 18, comma 1 l. 20 maggio 1970 cit.; art. 2, comma 1 d.lgs. 4 marzo 2015 cit.), risultando infatti irragionevole discernere le conseguenze “sanzionatorie”, a seconda delle modalità d’irrogazione, qualora tutte risultino astrattamente consentite per il tipo di recesso proceduto.

Una seconda, che muove proprio dalla “configurazione” intrinseca del patto di prova.

Infatti, è pacifico che la sua “causa” risieda – semplificando – nella reciproca convenienza del contratto e che l’esercizio della clausola sia, dunque, motivato da un esperimento ritenuto, da una delle parti, non rispondente ai propri interessi e/o aspettative.

Ragione per cui, se è vero, da un lato, come si ritiene in dottrina, che non esistono commistioni fra presupposti e requisiti costitutivi del licenziamento ex art. 2096 c.c., con quelli di cui all’art. 1 l. 15 luglio 1966, n. 604, rimanendo fattispecie affatto autonome (Cfr. TAMBURRO, Patto di prova e mancata specificazione delle mansioni. Una nullità “double-face”, in LPO, 9-10/2024, 736-737) e dall’altra, come osservato in giurisprudenza, che quando un datore di lavoro indica a fondamento del recesso una specifica “ragione”, rinuncia implicitamente a farne valere altre (Cfr. Cass., 4 gennaio 2013, n. 106), allora di piana evidenza è come, in nessuna eventualità, l’ipotesi in commento possa essere ricondotta o assimilata, anche a livello di originaria “intenzione” del disponente, al caso del “fatto” rivelatosi, con accertamento giudiziale, “insussistente”; qui, a ben riflettere, non vi sono “fatti”, bensì valutazioni discrezionali non ostensibili, per di più superabili, in via esclusiva, con prova di “motivo” illecito, sempre e comunque a carico del lavoratore (Ex multis Cass., 6 febbraio 1984, n. 913).

Di conseguenza, non stupisce affatto che alcune argomentate pronunce di merito, anche sviluppando ragionamenti non dissimili a quelli sopra accennati, siano tornate a battere la strada della “nullità”, con conseguente applicazione, a favore del prestatore, della tutela reale c.d. “forte”.

Fra queste (ma si veda anche App. Milano, 6 marzo 2023, R.G. 1229/2022 e giurisprudenza ivi citata), non può che farsi menzione agli approdi raggiunti, di recente, dal Tribunale di Ravenna, nella sentenza del 12 settembre 2024, n. 302.

In particolare, vertendo di una clausola su cui gravava, a discapito del datore di lavoro, un’insanabile incertezza circa l’anteriorità della sottoscrizione, rispetto l’inizio della prestazione lavorativa, il giudice ravennate, dopo aver ampiamente motivato la rilevabilità d’ufficio (poiché non eccepita dal lavoratore) «della nullità del licenziamento per l’ipotesi di nullità a monte del patto di prova sulla base del quale il rapporto di lavoro veniva estinto ad nutum», ne ravvisava addirittura tre possibili profili:

– per violazione di norma imperativa (comma 1, art. 1418 c.c.), quale è «indubbiamente» l’art. 1 l. 15 luglio 1966, n. 604 cit., allorquando prescrive che «il licenziamento del prestatore di lavoro non può avvenire che per giusta causa ai sensi dell’articolo 2119 del Codice civile o per giustificato motivo»;

– per mancanza di un elemento essenziale del negozio ossia la “causa” (comma 2, art. 1418 c.c.), dovendo considerarsi l’art. 1 l. 15 luglio 1966, n. 604 cit. anche «una norma di struttura, che pone un requisito (la giustificazione) costitutivo dell’atto ed in particolare la “causa” dello stesso, ossia la sua funzione economico-sociale»;

– in virtù del principio simul stabunt aut simul cadent, «non essendoci francamente dubbio che il licenziamento che espressamente si fondi, richiamandolo, sul solo patto di prova (nullo) debba considerarsi in collegamento negoziale con quest’ultimo».

Ma limitandosi alla prima delle ipotesi suddette e volendo chiudere il ragionamento iniziato sulla parte motiva della sentenza n. 128 (pure richiamata dal Tribunale di Ravenna), non pare seriamente opinabile la caratura imperativa del principio di “giustificazione” di cui art. 1 l. 15 luglio 1966, n. 604 cit., non foss’altro che per la sua funzione fondativa di «progressiva garanzia del diritto al lavoro, dettato nell’interesse di tutti i cittadini», la quale ha imposto che il legislatore, in attuazione dell’art. 4 Cost., adeguasse proprio «la disciplina dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato al fine intimo di assicurare a tutti la continuità del lavoro, [circondando] di doverose garanzie […] e di opportuni temperamenti i casi in cui si renda necessario far luogo a licenziamenti.». (C. Cost., 9 giugno 1965, n. 45).

Cosicché, considerando, altresì, che dal raggio di questa breve analisi, resta comunque estranea la differente eventualità del vizio “funzionale” ossia l’ipotesi in cui il datore di lavoro, ancorché in presenza di un valido patto di prova, non ne abbia consentito l’esperimento (e dove la giurisprudenza di legittimità ha sostenuto il “problematico” espediente della «prosecuzione – ove possibile – della prova per il periodo di tempo mancante al termine prefissato oppure il risarcimento del danno, non comportando la dichiarazione di illegittimità del recesso nel periodo di prova che il rapporto di lavoro debba essere ormai considerato come stabilmente costituito». Cfr. Cass., 3 dicembre 2018, n. 31159), non vi è dubbio che l’aporia che accinge questa peculiare fattispecie di licenziamento, specialmente riguardo alla “distanza” degli esiti giurisprudenziali raggiunti in termini di disciplina applicabile, non fa che rafforzare quell’esigenza d’intervento razionalizzatore a matrice legislativa, già sollecitato, a più riprese e con “minaccia” di «provvedere direttamente» (C. Cost., 22 luglio 2022 cit.), dalla stessa Consulta.

In difetto e fatti salvi radicali mutamenti di “sistema” quali conseguenza di positivo esito dei referendum promossi dalla Confederazione di Corso d’Italia (a tal riguardo, BALLESTRERO, E se domani…Due referendum per cambiare la disciplina dei licenziamenti, in LD, in corso di pubblicazione), per l’operatore di diritto non rimarrà che agire con la – ormai consueta – massima cautela, sperando, al più, in una nuova e più accurata pronuncia da parte della Corte di Cassazione, la quale, ad avviso di chi scrive, rimeditando la posizione da ultimo sostenuta, dovrà inevitabilmente muovere dall’assunto che il datore di lavoro, nel particolare caso di cui ci si occupa, «esercita un potere che non ha» (App. Milano, 6 marzo 2023 cit.).

Federico Avanzi, consulente del lavoro in Fidenza (PR)

Visualizza il documento: Trib. Ravenna, 12 settembre 2024, n. 302

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