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Nelle ipotesi di forzata inattività per intervento di integrazione salariale al lavoratore interessato viene cagionato un danno?

13 Luglio 2024|

A mente dell’art. 1, co. 8 (Norme in materia di intervento straordinario di integrazione salariale), della legge n. 223/1991, nel testo poi abrogato (e novellato dal d.lgs. n. 148/2015 il quale, sul punto, ha una diversa impostazione) Se l’impresa ritiene, per ragioni di ordine tecnico-organizzativo connesse al mantenimento dei normali livelli di efficienza, di non adottare meccanismi di rotazione tra i lavoratori che espletano le medesime mansioni e sono occupati nell’unità produttiva interessata dalle sospensioni, deve indicarne i motivi nel programma di cui al comma 2. Qualora il CIPI abbia approvato il programma, ma ritenga non giustificati i motivi addotti dall’azienda per la mancata adozione della rotazione, il Ministro del lavoro e della previdenza sociale promuove l’accordo fra le parti sulla materia, e qualora tale accordo non sia stato raggiunto entro tre mesi dalla data del decreto di concessione del trattamento straordinario di integrazione salariale, stabilisce con proprio decreto l’adozione di meccanismi di rotazione, sulla base delle specifiche proposte formulate dalle parti. L’azienda ove non ottemperi a quanto previsto in tale decreto è tenuta per ogni lavoratore sospeso a corrispondere con effetto immediato nella misura doppia, il contributo addizionale di cui all’articolo 8, comma 1, del citato decreto-legge 21 marzo 1988, n. 86, convertito con modificazioni dalla legge 20 maggio 1988, n. 160. Il medesimo contributo, con effetto dal primo giorno del venticinquesimo mese successivo all’atto di concessione del trattamento di cassa integrazione, è maggiorato di una somma pari al centocinquanta per cento del suo ammontare.”

Con l’ordinanza n. 10267 del 16 aprile 2024, la sezione lavoro della Corte di cassazione ha affrontato un ricorso, presentato da un’azienda avverso una decisione della Corte d’Appello di Bologna con la quale la stessa (accogliendo parzialmente l’appello incidentale presentato dalla lavoratrice) era stata condannata a corrispondere a quest’ultima, in via equitativa, la somma pari al 30% della retribuzione mensile netta da lei percepita a titolo di danno alla professionalità per tutto il periodo di illegittima sospensione in Cig.

Tre i motivi a sostegno del ricorso:

1) violazione e/o falsa applicazione dell’ (allora vigente) art. 1, co. 8, della legge n. 223/1991, atteso che secondo la Corte d’appello poteva esserci rotazione nella Cassa integrazione in un ufficio amministrativo anche tra lavoratori che svolgono mansioni fungibili laddove invece la legge parla di “meccanismi di rotazione tra lavoratori che espletano le medesime mansioni;

2) violazione e/o falsa applicazione dell’art. 4, co. 2, della legge 223/91 e artt. 28, 14, 15 della legge n. 300/1970 per avere la sentenza impugnata sostenuto che l’azienda, anche per le procedure di mobilità, pretermise sempre da qualsiasi sua comunicazione l’organizzazione sindacale di adesione della lavoratrice, venendo così meno ai suoi obblighi informativi ledendo oltre agli interessi del sindacato pure i diritti della lavoratrice appellata;

3) violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1223, 2103, 2697 cod. civ., nonché omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti ex art. 360 n. 3 e n. 5 c.p.c. , per avere la Corte d’appello riconosciuto il danno alla professionalità alla lavoratrice da inattività forzata richiamando una giurisprudenza estranea alla fattispecie perché riferita alla diversa violazione dell’art. 2103 cod. civ.

L’ordinanza in commento, nel rigettare il ricorso, ha ritenuto infondati il primo e il terzo motivo e inammissibile il secondo.

Vediamo l’iter logico seguito dal collegio di legittimità.

L’infondatezza del primo motivo è legata alla mera riproposizione di una critica superficiale a cui la Corte territoriale aveva risposto nel merito, accertando l’illegittimità della sospensione dal lavoro della lavoratrice per cassa integrazione sulla scorta di più articolati e complessi accertamenti di fatto e di diritto che non vengono minimamente scalfiti dalla proposta censura sul punto.

Come già spiegato nel giudizio di seconde cure, a fronte del dato sostanziale circa la carenza negli accordi di cigs di specifiche modalità che chiarissero i criteri di rotazione, in quali reparti si dovesse svolgere, quali funzioni e mansioni dovesse comprendere, non era corretto censurare il ragionamento a valle svolto in sentenza che evidenziava come -pur in assenza di specifici criteri a monte- la lavoratrice interessata fosse comunque in possesso di caratteristiche professionali che le consentivano la rotazione con le altre funzioni del suo settore di appartenenza e cioè l’ufficio personale.

A ben vedere, infatti, appare quindi fuorviante ed erroneo estrapolare dal contesto complessivo della sentenza (nella quale il ragionamento legato all’omessa rotazione parte dal fatto ritenuto preminente della mancanza di criteri e di disciplina della medesima) la circostanza in fatto che le mansioni della lavoratrice siano state valutate fungibili o meno, poiché non si comprende a quale criterio -in assenza di una espressa previsione in tal senso- vada rapportata detta fungibilità.

Conseguentemente, all’origine di ogni ragionamento stava la valutazione dell’assenza di criteri (se non di pura “facciata”) per selezionare il personale in cig, ed all’interno del personale così selezionato, l’ulteriore assenza di criteri per attuarne la rotazione, che non consentiva di valutare se la rotazione effettivamente svolta (nella fattispecie non svolta) si potesse considerare legittimo e coerente tenuto conto anche della professionalità rivestita dai lavoratori.

Alla base dell’infondatezza del terzo motivo di ricorso l’ordinanza in commento, in punto di liquidazione del danno, la sentenza di seconde cure, riformando la pronuncia di primo grado, ha affermato che era da riconoscere alla lavoratrice il danno alla professionalità, da valutarsi e quantificarsi in via equitativa, in misura pari ad un 30% della retribuzione netta mensile spettante alla stessa in costanza di rapporto (come percepita prima dell’ammissione a cis).

La Corte territoriale ha adeguatamente motivato sulla base degli arresti di legittimità che da tempo hanno evidenziato, in presenza di adeguate allegazioni, l’esistenza del danno alla professionalità da inattività forzata, poiché il fatto di non aver potuto esercitare la propria prestazione professionale, oltre all’immagine professionale, può ledere professionalmente il lavoratore dal momento che una inattività a lungo protratta nel tempo cagiona il depauperamento del patrimonio professionale e conseguentemente la sua ricollocabilità sul mercato del lavoro.

Più nello specifico, la Corte bolognese ha richiamato sia la sentenza n. 10/2002 (riferita ad un lavoratore che era stato lasciato in condizioni di inattività per lunghissimo tempo ed in cui la Suprema corte ha affermato che il comportamento datoriale non solo violava la norma di cui all’articolo 2103 cod. civ. ma era al tempo stesso lesivo del fondamentale diritto al lavoro, inteso soprattutto come mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, nonché dell’immagine e della professionalità del dipendente ineluttabilmente mortificate dal mancato esercizio delle prestazioni tipiche della qualifica di appartenenza), sia le successive decisioni n. 2763/2003 e n. 7963/2012 (entrambe pronunciate in relazione a domande proposte ex art. 2103 cod. civ. ma pur sempre relative a comportamenti datoriali illegittimi che hanno lasciato in condizione di inattività i dipendenti).

Nel caso specifico la Corte territoriale ha evidenziato come la lavoratrice interessata fosse stata lasciata forzatamente inattiva per almeno oltre 10 anni, né era stata mai chiamata a frequentare corsi formativi propedeutici per farla rientrare al lavoro e ciò aveva cagionato necessariamente il depauperamento della sua professionalità, disattendendo invece la domanda relativa agli altri danni lamentati, biologico morale ed esistenziale.

Sul punto l’ordinanza in commento osserva -in primo luogo- che è priva di pregio la censura secondo cui il danno da inattività per cis sia differente da quello relativo all’inattività che discende dalla violazione dell’art. 2103 cod. civ. per svuotamento di mansioni o altri illeciti simili; ovvero l’uno sia di natura legale e di natura contrattuale.

Al contrario la responsabilità del datore di lavoro che lasci inattivo il lavoratore in violazioni di disposizioni di legge o contrattuali (relative alla sospensione per cassa integrazione o alla normativa in tema di corretta assegnazione delle mansioni) risulta in ogni caso discendente dalla violazione di obblighi che discendono da norme che integrano il contratto di lavoro e dunque configura sempre una forma di responsabilità di natura contrattuale.

Né, sempre ad avviso del collegio di legittimità, si intuisce perché la fattispecie produttiva di responsabilità e di danno debba essere differente se l’illegittima inattività si produca nel corso dell’esecuzione del rapporto o in seguito ad illegittima sospensione (o anche estinzione) del rapporto, atteso che il danno che viene in rilievo è comunque un danno di natura professionale che si correla alla mancata esecuzione della prestazione, anche in base ad una regola presuntiva (quella che è stata posta dalla Corte d’appello alla base della liquidazione del danno).

Il danno alla professionalità –per sua natura plurioffensivo- richiesto dalla lavoratrice e liquidato dal giudice d’appello è ovviamente un danno diverso dalla mancata percezione della retribuzione per illegittima collocazione in cig, essendo il primo legato appunto alla perdita della professionalità, dell’immagine professionale e della dignità lavorativa, laddove il secondo è di natura esclusivamente patrimoniale e deriva dalla mancata corresponsione e percezione della retribuzione derivante dal contratto.

Per giurisprudenza consolidata il danno patrimoniale alla professionalità “può inoltre essere liquidato prendendo a riferimento una quota della retribuzione che nella fattispecie la Corte di merito ha individuato nella misura del 30%; escludendo invece il danno esistenziale, morale e biologico per difetto di adeguata allegazione e prova. Ciò la Corte territoriale ha fatto attraverso un accertamento del tutto in linea con la giurisprudenza di questa Corte sia sull’an, sia sulla prova, sia sul quantum (v. Cass. 19923/2019).”

Sul punto l’ordinanza in commento rileva che, ai fini della dell’esistenza e della prova anche presuntiva del danno alla professionalità (anche da demansionamento e dequalificazione professionale), costituiscono elementi indiziari gravi, precisi e concordanti la qualità e quantità dell’attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione (cfr. Cass. n. 25743/2018; n. 19778/2014; n. 4652/2009; n. 29832/2008).

L’inammissibilità del secondo motivo di ricorso è stata dichiarata invece, sia per la promiscuità delle censure -di fatto e diritto-, sia per la sua irrilevanza, atteso che, anche a questo proposito, la Corte territoriale aveva accertato a monte plurime ed ampie violazioni minimamente censurate in ricorso.

Luigi Pelliccia, avvocato in Siena e professore a contratto di diritto della sicurezza sociale nell’Università degli Studi di Siena

Visualizza il documento: Cass., ordinanza 16 aprile 2024, n. 10267

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