Licenziamento del lavoratore marittimo nel settore della nautica da diporto durante il periodo emergenziale da Covid-19
1 Marzo 2024|Il fatto
La pronuncia in commento (sentenza 26 giugno 2023, n. 454; è pendente il giudizio di cassazione, a quanto consta) emanata dalla Corte di Appello di Firenze in merito al reclamo della società datrice di lavoro e soccombente in primo grado nell’ambito di un c.d. procedimento Fornero, concerne il licenziamento privo di motivazione comminato ad un lavoratore marittimo a tempo indeterminato ed impiegato a bordo di una motonave utilizzata in via esclusiva quale nave da diporto privato ad uso non commerciale da parte di un noto stilista.
Il Tribunale di Lucca in prima istanza aveva provveduto a separare il procedimento di licenziamento, in cui veniva accolta la richiesta di reintegrazione per l’assenza del convenuto e la cui opposizione veniva successivamente ritenuta tardiva, con le richieste risarcitorie correlate a differenze retributive avanzate dal ricorrente e, peraltro, respinte dal Tribunale di Lucca con separata sentenza del 3.8.2023.
Le questioni affrontate dal giudice di appello sono tutte di un certo interesse, ed alcune di queste intervengono su qualche snodo sostanziale e procedurale sollevato dal c.d. procedimento Fornero, dalla normativa emergenziale da Covid-19 e dalla novella introdotta all’art. 6, comma 2, l. 604/1966 nel 2012.
Prima di esaminare tali argomenti è però necessario chiarire come debba essere inquadrato il lavoratore, questione rimasta sostanzialmente implicita nella decisione del giudice d’Appello fiorentino, ma essenziale per comprendere quale sia la disciplina applicabile al caso di specie.
La disciplina applicabile al lavoratore marittimo nell’ambito del settore della nautica da diporto
Il settore della nautica da diporto ha come primo e principale riferimento regolativo il c.d. Codice della nautica di diporto, oggi disciplinato dal d.lgs. 18.7.2005 n. 171, tranquillamente applicabile ratione temporis al caso in discussione.
Per quanto concerne la regolazione dei rapporti di lavoro di coloro che svolgono la propria attività lavorativa a bordo, il Codice della nautica da diporto non contiene, in realtà, alcuno specifico riferimento regolativo, ma l’approccio interpretativo più diffuso è incline a ritenere che si possa generalmente far riferimento al contratto di arruolamento di cui agli articoli 323 e seguenti del Codice della navigazione in relazione al “carattere speciale della normativa sulla navigazione da diporto rispetto al codice della navigazione” (Cass. 14.10.2019 n. 25771, in Mass.giust.civ. 2019; Cass. 26.6.2015 n. 13224, in Mass.giust.civ. 2015; in dottrina cfr. A. Antonini, La legislazione sulla navigazione da diporto nel sistema del diritto della navigazione, in M.M. Comenale Pinto, E.G. Rosafio, Il diporto come fenomeno diffuso, Milano, 2015, p. 27), all’indicazione contenuta nell’art. 35 d.lgs. 171/2005 che impone al comandante di “verificare prima della partenza la presenza a bordo di personale qualificato e sufficiente per formare l’equipaggio necessario per affrontare la navigazione” ed al contenuto del successivo art. 36 secondo cui “i servizi di bordo delle navi da diporto sono svolti dal personale iscritto nelle matricole della gente di mare e della navigazione interna”.
L’unica eccezione prevista dall’art. 36, co. 3, d.lgs. 171/2005 è, per le “navi” da diporto come quella su cui si è svolta l’attività lavorativa oggetto di discussione (si tratta infatti di una motonave di 461 t.s.l.), la possibilità che “i servizi complementari di bordo” possano essere espletati anche da soggetti imbarcati in qualità di “ospiti” (in merito alla cui nozione si rimanda a U. La Torre, Ospite e membro di equipaggio: una singolare commistione, in AaVv, Studi in memoria di Elio Fanara, Milano, 2009, p. 139), ma con ciò lasciando intendere che anche gli stessi servizi complementari di bordo, qualora effettuati in forma professionale e continuativa, non possano che essere svolti secondo le regole contenute nel Codice della navigazione per quanto concerne il “lavoratore marittimo”, come, peraltro, la Corte d’appello fiorentina definisce l’odierno reclamato.
Il che rende più comprensibile la, peraltro condivisibile, posizione della Corte secondo cui al caso di specie non possa trovare applicazione la disciplina sul lavoro domestico, richiesta proveniente dalla difesa della società datrice in virtù della non applicabilità della disciplina sul licenziamento al lavoro domestico.
Al rapporto di lavoro marittimo derivante da un contratto di arruolamento è, invece, ormai da tempo ritenuta applicabile l’integrale disciplina, sostanziale e processuale, del licenziamento normalmente adottata per il comune contratto di lavoro subordinato (Corte cost. 3.4.1987 n. 96 e Corte cost. 31.1.1991 n. 41), e, conseguentemente, appare pienamente condivisibile la decisione dei giudici, tanto di primo quanto di secondo grado, circa l’applicabilità al caso in discussione anche della disciplina processuale prevista dal c.d. procedimento Fornero e della regolamentazione sostanziale introdotta temporaneamente per il periodo di emergenza sanitaria da Covid-19.
Alcune questioni processuali nell’ambito del c.d. procedimento Fornero, art. 327 cpc e notifica del mutamento del rito al contumace
Il lavoratore marittimo aveva impugnato il licenziamento durante il periodo emergenziale da Covid-19 ricevuto dalla società datrice di lavoro in forma scritta ma senza alcuna motivazione, reclamando altresì diverse somme a titolo retributivo e risarcitorio, attraverso un unico ricorso ex art. 414 c.p.c., che il Tribunale di Lucca decideva però di incardinare in due ambiti separati, applicando il c.d. rito Fornero alle questioni correlate al licenziamento ed il rito ordinario a quelle risarcitorie.
Una delle prime questioni su cui si trova a decidere il giudice di appello concerne l’eccezione proposta dalla società datrice di lavoro che, rimasta contumace nella prima fase sommaria del procedimento Fornero, affermava di aver avuto conoscenza solo dopo diverso tempo tanto dell’ordinanza con cui era stato predisposto il mutamento del rito, quanto dell’ordinanza con cui il lavoratore era stato reintegrato, non essendo state mai notificate.
Tali eccezioni erano state respinte dal Tribunale di Lucca nell’ambito della fase a cognizione piena, in base al fatto che l’opposizione fosse stata proposta dopo i sei mesi previsti dall’art. 327 c.p.c.
Le questioni processuali a cui il giudice di Appello si trova a dover dare risposta concernono, quindi, la necessità o meno di notificare l’ordinanza di modifica del rito, e la possibilità di applicare l’art. 327 c.p.c., norma di cui nell’art. 1 l. 92/2012 vi è un richiamo soltanto all’interno dei commi 61 e 64 relativi al reclamo ed al ricorso per Cassazione, ma non nel comma 51 che disciplina la fase di opposizione nel rito Fornero.
In merito alla modifica del rito la Corte d’Appello ritiene che non vi sia alcun dovere di notificare l’ordinanza, posto che l’atto non rientra fra quelli previsti dall’art. 292 c.p.c., relativo agli atti che debbono necessariamente essere notificati alla parte rimasta contumace nel corso del giudizio, e non emergerebbero neanche le ragioni che avevano spinto la Corte costituzionale ad intervenire sull’art. 426 c.p.c. imponendo la necessità di notificare al contumace anche l’ordinanza che dispone il mutamento del rito ordinario in quello speciale del lavoro, al fine dell’integrazione degli atti (Corte cost. 14.1.1977 n. 14).
Secondo il giudice d’Appello, infatti, nel rito Fornero la situazione sarebbe del tutto diversa rispetto a quella esaminata dal giudice delle leggi, non sussistendo alcuna preclusione fra la fase sommaria e quella piena analoga a quella prevista dal rito del lavoro rispetto a quello ordinario, e non sarebbe, quindi, possibile superare il consolidato orientamento giurisprudenziale circa il carattere tassativo dell’elenco contenuto nell’art. 292 c.p.c. (su cui cfr. Cass. 9.11.2021 n. 32647, in Guid.dir. 2021, 47; Cass. 16.9.2015 n. 18147, in Mass.giust.civ. 2015; Cass. 27.11.2003 n. 18154, in Mass.giust.civ. 2003, 11).
In merito all’applicabilità del termine lungo di decadenza previsto dall’art. 327 c.p.c., che il giudice di primo grado riteneva applicabile anche al giudizio di opposizione, per la Corte d’Appello non può, invece, ritenersi applicabile, in virtù della specificità del rito di cui alla l. 92/2012 e, soprattutto, dando particolare peso al mancato richiamo dell’art. 327 c.p.c. ad opera dell’art. 1, co. 51, l. 92/2012 che contiene soltanto un riferimento al termine di decadenza breve di 30 giorni dal momento dell’avvenuta notifica o comunicazione del provvedimento, mentre non prevede alcun riferimento circa l’eventuale mancata notifica al contumace.
La decisione in commento ritiene che il dies a quo del termine di 30 giorni previsto dall’art. 1, co. 51, l. 92/2012, dovrà cominciare a decorrere “da quando la parte aveva avuto conoscenza certa della esistenza e del contenuto del provvedimento da opporre”, richiamando un precedente della stessa Corte d’Appello di Firenze nell’ambito di un procedimento di opposizione ex art. 28 l. 300/1970 (App. Firenze 20.10.2020, inedita a quanto consta).
Si tratta di un condivisibile principio che, in realtà, emerge anche dalla giurisprudenza della Suprema Corte, assunta sempre nell’ambito del giudizio di opposizione ex art. 1, commi 51-57, della l. n. 92/2012, secondo cui “il giudice non può sanzionare in rito con l’improcedibilità l’omessa notifica del ricorso, sul mero rilievo della mancata comparizione delle parti all’udienza prefissata, senza aver prima verificato d’ufficio che l’opponente abbia avuto effettiva conoscenza del decreto di fissazione dell’udienza, da notificarsi, unitamente all’opposizione”, in forza di un generale principio derivante dagli stessi principi costituzionali, per cui “ove sia prescritto un termine per il compimento di una certa attività processuale, la cui omissione si risolva in un pregiudizio della situazione tutelata, deve essere assicurata la conoscibilità dell’atto che funge da presupposto condizionante l’onere notificatorio, sebbene la suddetta norma non preveda esplicitamente la comunicazione” (Cass. 12.4.2018 n. 9142, in Mass.giur.civ. 2018).
Licenziamento non motivato durante il periodo emergenziale Covid e onere della prova
Nel merito, se per quel che concerne il vizio dell’atto di licenziamento, del tutto privo di motivazione, non sussistono dubbi, la Corte d’appello ha modo di affrontare le conseguenze sanzionatorie, non condividendo la decisione del giudice di primo grado che aveva optato per la reintegrazione del lavoratore in base alla disciplina emergenziale da Covid-19 ed alla violazione del disposto dell’art. 46 d.l. 18/2020 conv. in l. 27/2020, che vieta il licenziamento per ragioni economiche, ma precisando che, in caso di licenziamento privo di motivazione nelle imprese con meno di 15 dipendenti, deve essere applicata unicamente la sanzione risarcitoria di cui all’art. 8 l. 604/66, nonostante il recesso sia avvenuto durante il periodo emergenziale, in quanto sarebbe stato onere del lavoratore provare che l’atto di recesso non motivato sia dovuto a giustificato motivo oggettivo e non soggettivo.
La disciplina correlata al blocco dei licenziamenti per ragioni economiche durante il periodo emergenziale da Covid-19 è stata ritenuta avere carattere imperativo, in quanto volta a garantire la generale stabilità del sistema economico in un periodo di emergenza sanitaria globale, con conseguente nullità del licenziamento comminato in tale periodo, tanto dalla dottrina (cfr. per tutti F. Scarpelli, Blocco dei licenziamenti e solidarietà sociale, in Riv.it.dir.lav. 2020, 2, p. 313) quanto dalla giurisprudenza (Trib. Milano 10.11.2021; Trib. Roma 7.9.2021; Trib. Venezia 3.3.2021; Trib. Milano 28.1.2021; Trib. Venezia 19.1.2021; Trib. Mantova 11.11.2020, anche se contra Trib. Brescia 17.6.2022, tutte in Dejure.it), che pure ha avuto modo di ritenere tendenzialmente non applicabile il blocco al licenziamento dei dirigenti (Trib. Roma 25.10.2022, in Riv.it.dir.lav. 2023, 1, II, p. 3; Trib. Roma 19.4.2021, in Foro it. 2021, 5, I, 1812; ma contra Trib. Roma 26.2.2021 in Foro it. 2021, 4, I, 1450) o al licenziamento per superamento del periodo di comporto (Trib. Venezia 29.10.2021, in IUS 2022).
Ora, se la Corte d’Appello fiorentina non mette in discussione la nullità del recesso intimato per ragioni oggettive, ciò che emerge dalla sua decisione è la difficoltà stessa di configurare quale licenziamento per g.m.o. un atto di recesso ritenuto viziato per mancanza di motivazione, e la, invero non condivisibile, necessità di addossare il relativo onere probatorio al lavoratore.
Se nell’ambito di efficacia dell’art. 18 l. 300/1970 per le imprese con più di 15 dipendenti l’inefficacia per vizi di forma dell’atto di licenziamento comporta due distinte sanzioni, reintegratoria in caso di licenziamento intimato in forma orale (art. 18, 1 co., l. 300/1970) o meramente risarcitoria in caso di licenziamento intimato senza la contestuale “specificazione dei motivi che lo hanno determinato” in violazione di quanto previsto dall’art. 2, co. 2, l. 604/66 (art. 18, co. 6, l. 300/1970), tale distinzione non emerge però per le piccole imprese (nell’ambito di vigenza del d.lgs 23/2015 la distinzione sugli effetti sanzionatori dell’inefficacia è, invece, prevista anche per le piccole imprese), nel cui ambito un’interpretazione testuale dell’art. 2 l. 604/66 comporterebbe l’integrale ripristino del rapporto di lavoro.
Si tratta, invero, di una aporia regolativa già segnalata in dottrina circa “l’assurdità di una tutela reale solo per le aziende minori” (A. Vallebona, La riforma del lavoro, Giappichelli, 2012 p. 44) ed affrontata dalla giurisprudenza che ha già avuto modo di prendere posizione sulle conseguenze sanzionatorie dell’inefficacia della violazione dell’art. 2, co. 2, l. 604/66 per le piccole imprese, ritenendo applicabile la sola disciplina risarcitoria di cui all’art. 8 l. 604/66, in virtù di un’interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata della novella del 2012 al fine di evitare un “evidente effetto distonico rispetto alle intenzioni del legislatore” (Cass. 5.9.2016 n. 17589, in Guid. Dir. 2016, 40, 47; Cass. trib. 29.7.2016 n. 15879, in IUS 2016; nello stesso senso, più di recente, Cass. 25.11.2019 n. 30668 e Cass. 15.6.2022 n. 19323, in Dejure.it).
Se tale principio giurisprudenziale può essere in linea di massima condivisibile, ciò che invece non convince del tutto nella decisione della Corte d’Appello di Firenze è in particolare il fatto di non aver pienamente valutato l’impatto della disciplina imperativa prevista per il periodo emergenziale ed applicabile in caso di licenziamento per g.m.o. “indipendentemente dal numero dei dipendenti”.
Ed in effetti se pure la Corte concorda pienamente con l’orientamento dominante circa la “nullità del recesso intimato per ragioni oggettive nel periodo di interdizione”, la decisione sembrerebbe però andare in direzione opposta, ed il convincimento della Corte appare fondato unicamente sul fatto che “il lavoratore non ha chiesto che si indagasse in ordine alla motivazione del recesso e anzi si è espressamente opposto a tale indagine”, in virtù di un supposto onere probatorio addossabile al lavoratore analogicamente desumibile dall’art. 18, co. 6, l. 300/1970.
Ora, a prescindere da questioni di mero fatto, posto che nella stessa decisione in commento sembrerebbe che il lavoratore avesse inizialmente richiesto al datore l’espressa indicazione dei motivi di licenziamento, e dall’utilizzo analogico di una norma che sembrerebbe avere tutt’altra finalità, visto che la parte finale del 6° comma dell’art. 18 l. 300/1970 più che introdurre un onere processuale di inversione della prova per il lavoratore, sembrerebbe soltanto aver richiamato un basilare principio che impedisca al mero formalismo giuridico di prevalere su questioni sostanziali, in coerenza con le decisioni del giudice delle leggi secondo cui “l’obbligo di motivazione e la regola del contraddittorio sono riconducibili al principio di tutela del lavoro, enunciato dagli artt. 4 e 35 Cost., che impone al legislatore di circondare di doverose garanzie e di opportuni temperamenti il recesso del datore di lavoro” (Corte cost. 16.7.2020 n. 150; Corte cost. 26.9.2018 n. 194; Corte cost. 9.6.1965 n. 45), nel caso di specie non appare sufficientemente motivata la determinazione della Corte a non dare applicazione ad alcuni rilevanti principi di carattere imperativo.
Innanzitutto quello di cristallizzazione della motivazione del licenziamento, posto che “il principio di contestualità ed immodificabilità della motivazione ha natura imperativa” (Cass. 20.3.2019 n. 7851, in IUS 2019) e quello dell’onere della prova sulla giustificazione del licenziamento che “spetta al datore di lavoro” secondo la disposizione dell’art. 5 l. 604/1966, il quale “attribuisce inderogabilmente al datore di lavoro l’onere di provare la sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento” (Cass. 16.8.2016 n. 17108, in Guid. Dir. 2016, 37, 39).
Ma è anche e soprattutto il principio alla base della disciplina emergenziale, non a caso esplicitamente estesa anche alle piccole imprese, le cui disposizioni sembrerebbero essere state emanate “a tutela di fondamentali interessi sociali, perché volte a garantire la stabilità dei rapporti di lavoro nell’ambito di una più generale normativa finalizzata alla salvaguardia del sistema economico” (Trib. Roma 7.9.2021, cit.), a dover necessariamente imporsi con una valenza particolarmente ampia, suscettibile di essere superata soltanto a fronte delle precise, ristrette e limitate eccezioni previste dalle norme.
Nel caso di specie è la stessa Corte d’Appello ad affermare come “non sussista alcuna delle ipotesi eccettive previste dalla legge” emergenziale, la cui ratio sarebbe, invece, del tutto vanificata nel caso in cui potesse essere tranquillamente aggirata attraverso un atto di licenziamento sostanzialmente ad nutum.
Lorenzo Giasanti, professore associato nell’Università degli Studi di Milano-Bicocca
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