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L’evoluzione della procedura per le dimissioni e la difficile convivenza tra obblighi dichiarativi e comportamento concludente del lavoratore

8 Maggio 2024|

La sentenza della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, n. 6905 del 14 marzo 2024, affronta il delicato tema dell’inefficacia delle dimissioni per assenza delle formalità che la legge prescriveva, e tuttora prescrive, al fine di attribuire certezza alla volontà del dipendente e di arginare il fenomeno delle c.d. “dimissioni in bianco”.

Il caso di specie era disciplinato, ratione temporis, dall’art. 4, commi da 17 a 22, della Legge n. 92/12, che prevedeva il noto doppio binario procedurale per l’accertamento della genuinità dimissioni, la cui efficacia era sospensivamente condizionata, alternativamente, ad una procedura di convalida da effettuare in sede amministrativa, ovvero alla sottoscrizione di una specifica dichiarazione di ratifica, apposta in calce alla ricevuta di trasmissione della comunicazione di cessazione del rapporto di lavoro.

Sul datore di lavoro, dunque, gravava l’onere di rivolgere al dipendente, entro trenta giorni dalle dimissioni, un invito scritto a presentarsi nelle sedi amministrative di cui al comma 18 (Direzione territoriale del lavoro, Centro per l’impiego ovvero sedi individuate dalla contrattazione collettiva) oppure ad apporre la suddetta sottoscrizione in calce alla dichiarazione di ratifica indicata al comma 18. Il mancato assolvimento di questo onere determinava, appunto, l’inefficacia delle dimissioni.

Nel caso esaminato dalla Suprema Corte, il datore di lavoro né aveva proceduto alla convalida in sede amministrativa del comma 17, né aveva completamente assolto all’onere di cui al comma 18, in quanto al lavoratore era stato fatto sottoscrivere esclusivamente un modulo Unilav di comunicazione di cessazione del rapporto di lavoro, del tutto privo della dichiarazione di ratifica della volontà di rassegnare le dimissioni.

A fronte di ciò la Suprema Corte ha correttamente precisato che “il meccanismo congegnato dai commi 17 ss. dell’art. 4 legge cit. disegna una fattispecie a formazione progressiva”, sicché “il riferimento ad apposita dichiarazione da sottoscrivere da parte della lavoratrice o del lavoratore dimissionari è concettualmente distinto da quello di ricevuta di trasmissione della comunicazione di cessazione del rapporto di lavoro, quale luogo topografico ove tale dichiarazione espressa di convalida o conferma può essere apposta”.

Di qui l’erroneità della sentenza della Corte di Appello che, invece, aveva attribuito alla sola sottoscrizione in calce al modulo Unilav il significato di una conferma della volontà di risolvere il rapporto, anche a prescindere dall’assenza di specifiche dichiarazioni di volontà in tal senso. Ma tale accertamento, come giustamente affermato dalla Cassazione si risolveva in una “sovrapposizione, una crasi di due concetti che la norma mantiene chiaramente distinti, e rappresenta pertanto non un’interpretazione sostanziale della norma, ma una sua inammissibile interpretazione abrogatrice”.

L’onere di cooperazione richiesto al dipendente nell’ambito della procedeura per dimissioni pone, però, alcuni delicati problemi che meritano una seria riflessione.

Occorre chiedersi, infatti, cosa accade nell’ipotesi in cui il lavoratore, invece di aderire all’invito, rimanga inerte e neppure provveda alla revoca delle dimissioni.

Il sistema delineato dalla Legge n. 92/12 e dalla giurisprudenza della Cassazione prendeva espressamente in considerazione questa possibilità: se, infatti, il lavoratore non si recava più a lavorare di modo e di fatto, trascurando la procedura di convalida, ovvero omettendo di sottoscrivere la dichiarazione di ratifica, nonostante l’invito del datore di lavoro, il rapporto si intendeva risolto dopo sette giorni dalla ricezione dell’invito (cfr. comma 19).

Il binomio invito-mancata risposta, dunque, consentiva di attribuire valore al silenzio significativo del lavoratore, giuridificando la fattispecie giurisprudenziale delle dimissioni per per fatti concludenti e superando le molte incertezze legate alla difficoltà di appurare, in concreto, con indagine “particolarmente rigorosa”, quali comportamenti o fatti concludenti potessero costituire valida volontà della manifestazione di dimettersi e quali, invece, fossero compatibili con la volontà di proseguire il rapporto di lavoro (tra le tante, Cass. 11 marzo 1995, n. 2853, in Giust. Civ., 1995, I, 2755).

Prima della Legge n. 92/12, invece, si ponevano molti dubbi,soprattutto nei casi in cui il datore di lavoro, dopo aver licenziato oralmente il lavoratore, sosteneva che la cessazione del rapporto era avvenuta a seguito di dimissioni, in forma orale o per fatti concludenti. Sicché, nel dubbio, bene aveva fatto il legislatore a prevedere che la semplice manifestazione di volontà del lavoratore non potesse più essere sufficiente ai fini dell’efficacia del recesso, dovendo il datore di lavoro dare prova anche di aver inutilmente invitato il dipendente ad effettuare la procedura di convalida del comma 17 o di sottoscrivere la dichiarazione del comma 18.

Tuttavia, il quadro finora descritto ormai non esiste più. La procedura per le dimissioni volontarie dettata dall’art. 26 del D.lgs. n. 151/2015, infatti, prevede che queste possano essere effettuate esclusivamente con modalità telematica, su appositi moduli resi disponibili dal Ministero del Lavoro.

Anche la nuova procedura, come la precedente, mira a soddisfare il solito duplice obiettivo, da un lato, di conferire data certa alle dimissioni al fine di rendere impossibile il fenomeno delle dimissioni in bianco; dall’altro, di garantire che la volontà del lavoratore di risolvere il contratto di lavoro si sia formata e sia stata espressa liberamente e genuinamente, in assenza di qualunque costrizione esercitata dal datore di lavoro.

Fin qui nulla di nuovo, poiché l’innovazione del mezzo telematico non muta la fisionomia dell’istituto né le sue finalità.

Qualche differenza emerge, invece, ove si prenda nuovamente in considerazione il caso del lavoratore che non si reca più a lavorare e che, contestualmente, omette di effettuare la procedura di dimissioni, con l’obiettivo di far poi valere un asserito licenziamento orale o, più semplicemente, costringere il datore di lavoro ad intimare un licenziamento per assenza ingiustificata a fronte della sua improvvisa “sparizione”.

Si potrebbe pensare che si tratti di ipotesi residuali, ma la prassi ci indica che non è così e che, anzi, sono assai numerosi i lavoratori che si comportano in questo modo con il dichiarato fine di ottenere la NASpI, cui altrimenti non avrebbero diritto in caso di semplici dimissioni. Questa condotta è riprovevole per almeno tre motivi, sia perché è volta a lucrare illecitamente un’indennità prevista solo in caso di perdita involontaria del lavoro, sia perché tale indennità è finanziata da tutti i lavoratori dipendenti, sia perché si espone il datore di lavoro all’ingiusto pagamento del cosiddetto “ticket” che è pari al 41% del massimale mensile NASpI per ogni 12 mesi di anzianità aziendale negli ultimi tre anni (cfr. art. 2, commi da 31 a 35, della Legge 28 giugno 2012, n. 92, nonché, in argomento, il recente messaggio INPS del 7 febbraio 2024, n. 531).

Sciaguratamente, in ipotesi del genere, non è più previsto un meccanismo analogo a quello dell’invito e, dunque, non vi è modo di portare alla luce la vera natura del recesso, se per dimissioni o per licenziamento orale.

Pertanto, il datore di lavoro che subisce delle dimissioni per fatti concludenti, corre ormai un doppio rischio: in primo luogo, il lavoratore può sostenere che vi è stato un licenziamento orale; in subordine, se non riesce a dare la prova di tale licenziamento, può comunque sostenere che le dimissioni sono inefficaci, stante la mancata “previa adozione delle specifiche modalità formali” (Cass. 26 settembre 2023, n. 27331, inedita); sicché la suddetta inefficia renderebbe addirittura inutile indagare la sussistenza di una effettiva volontà di dimettersi, perché il recesso sarebbe invalido anche ove si riuscisse a dimostrare che il dipendente ha tenuto un comportamento incompatibile con l’asserita intenzione  di proseguire il rapporto. E ciò ovviamente desta più di un dubbio, perché equivarrebbe ad eliminare la possibilità di dimissioni per fatti concludenti.

Così si spiega la scelta di molte aziende di procedere ad un licenziamento per assenza ingiustificata, sopportando il costo non dovuto del ticket NASpI e avallando tacitamente i desiderata del lavoratore in realtà dimissionario, pur di non dover intraprendere un defaticante ed incerto contenzioso giudiziario.

In assenza di un auspicabile intervento del legislatore, alcune sentenze di merito si sono fatte carico di cercare una soluzione per contrastare questo fenomeno inaccettabile.

Dapprima è stata pubblicata la sentenza n. 106/2020 del Tribunale di Udine, secondo cui il lavoratore dimissionario “a voce”, se omette di esperire la procedura telematica obbligatoria e si rende assente ingiustificato, costringendo il datore di lavoro alla risoluzione del rapporto per giusta causa, è tenuto a risarcire allo stesso un importo pari alla somma dovuta a titolo di ticket di ingresso alla NASpI già pagato dallo stesso, dovendosi ritenere escluso il requisito della perdita incolpevole del posto di lavoro e, dunque, il diritto alla NASpI

A distanza di due anni vi è stata poi la sentenza n. 20/2022, sempre del Tribunale di Udine, che ha accertato la sussistenza di dimissioni per fatti concludenti, pur in assenza della procedura telematica, sostenendo che “le dimissioni possono continuare a configurarsi come valide, almeno in ipotesi specifiche, anche per effetto di presupposti diversi da quelli della avvenuta formalizzazione telematica imposta con la novella del 2015. L’art. 26 del D.Lgs. n. 151/2015, invero, non può che disciplinare, per logica coerenza, la sola eventualità in cui la volontà del lavoratore si concretizzi in una manifestazione istantanea, ove vi è l’esigenza di incardinare la stessa in un atto formale al fine di prevenire ogni tipo di abuso e, in particolare, il fenomeno delle c.d. “dimissioni in bianco”, al quale la novella aveva inteso porre rimedio. Si deve ritenere, di contro, che non sia affatto riconducibile all’ambito applicativo dell’esaminato art. 26 il diverso caso in cui la volontà risolutiva del lavoratore dipendente si sia sostanziata, come accaduto nella vicenda al vaglio, in un contegno protrattosi nel tempo e palesatosi in una serie di comportamenti – anche omissivi idonei ad assicurare un’agevole verifica della sua genuinità.

Oltre a questo argomento, a mio avviso, ve ne è un altro che pure consente di attribuire efficacia alle dimissioni per fatti concludenti, senza entrare in contrasto con la formulazione dell’art. 26 del D.lgs. n. 151/15.

Tale norma, infatti, ben può essere interpretata assumendo che l’inefficacia delle dimissioni rassegnate senza procedura telematica operi esclusivamente per il lavoratore e non anche per il datore di lavoro, il quale, dunque, potrebbe sempre far accertare la sussistenza di dimissioni per fatti concludenti.

Si tratterebbe, in sostanza, di un’ipotesi di inefficacia relativa, che è forma di invalidità ben nota al nostro ordinamento.

È pur vero che l’art. 26 cit. non parla espressamente di inefficacia relativa, per cui si potrebbe obiettare l’assenza di una previsione del legislatore che, in altri casi, risulta espressamente, come nel caso degli atti e dei pagamenti del fallito (cfr. art. 44 del R.D. n. 267/1942) ovvero dell’azione revocatoria (art. 2901 cod. civ.).

A questa obiezione, tuttavia, si potrebbe replicare in vario modo.

In primo luogo, va detto che non sempre l’inefficacia relativa risulta testualmente, come avviene, ad esempio, nel caso dell’azione di riduzione delle donazioni per lesioni di legittima ex art. 555 cod. civ., che produce effetto effetto solo nei confronti di chi ha agito in riduzione per tutelare il proprio diritto, anche in assenza di previsioni espresse.

Inoltre, interpretando l’inefficacia dell’art. 26 cit. come assoluta, si arriverebbe al paradosso di attribuire al lavoratore un diritto potestativo, e cioè il poter decidere della validità delle proprie dimissioni; e ciò sarebbe assurdo visto che l’inefficacia è posta a tutela della genuinità delle dimissioni e non può essere strumentalizzata, contro se stessa, per invalidare ex post delle dimissioni rassegnate con piena consapevolezza. Si tratterebbe, infatti, di un comportamento in violazione del canone della buona fede oggettiva, da cui discende il divieto di venire contra factum proprium e abusare del  proprio diritto con atteggiamenti contraddittori.

Ovviamente, una volta ammessa la configurabilità delle dimissioni per fatti concludenti anche nel nuovo regime, si porrà nuovamente la questione di accertare, in concreto, se il comportamento del lavoratore, interpretato anche alla luce dei principi di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ., sia o meno idoneo ad ingenerare l’affidamento del datore di lavoro nella sua rinuncia al posto di lavoro (si veda in proposito Cass. 28 aprile 2009 n. 9924, in RIDL, 2010, II, 595 ss.).

Tuttavia, se paragonato al rischio della “scomparsa” delle dimissioni per fatti concludenti, questo sembra essere davvero il minore dei mali.

Roberto Maurelli, avvocato in Roma e dottore di ricerca

Visualizza il documento: Cass., ordinanza 14 marzo 2024, n. 6905

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