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L’evoluzione della nozione di malattia e, in particolare, di disabilità nel diritto del lavoro. Riflessi sull’istituto del comporto

3 Maggio 2024|

È noto che la nozione di malattia rilevante nel diritto del lavoro non coincide con la nozione di malattia rilevante per la scienza medica.

Tale principio, fino a oggi, ha consentito di escludere che qualsivoglia patologia tale per la scienza medica impedisca l’esecuzione della prestazione di lavoro – all’esatto contrario, il collocamento obbligatorio comporta che alcune patologie garantiscano il diritto a essere ammessi al lavoro – e ha conseguentemente attribuito al datore di lavoro il potere di sindacare, affrontando l’alea di un contenzioso, la certificazione medica fornita dal lavoratore, anche in punto di congruenza tra diagnosi, prognosi e terapia; in sostanza, la malattia atta a giustificare l’assenza dal lavoro era (e resta, sul piano generale) soltanto quella talmente intensa da rendere impossibile o eccessivamente onerosa la prestazione.

La logica è stata, fino a oggi, quella di evitare gli abusi dell’istituto, mentre l’evoluzione in commento la ribalta, mirando a proteggere il lavoratore che sia affetto, appunto, dalla nuova nozione di malattia comportante una disabilità, da comportamenti datoriali che il nostro ordinamento qualifica da qualche tempo in termini di vere e proprie discriminazioni, a norma dell’art. 2, d. lgs. n. 216/2003.

Le pronunce che si commentano aderiscono appunto all’orientamento, di matrice comunitaria e ormai in via di consolidamento tendenzialmente irreversibile, in forza del quale, allorquando la patologia sia qualificabile in termini di disabilità, il lavoratore che ne sia affetto diviene passibile di discriminazione, anche indiretta, e ha diritto all’adozione, da parte del datore di lavoro, in riferimento all’organizzazione dell’impresa, di quei ragionevoli accomodamenti necessari a consentire l’espletamento della prestazione e, nel caso in cui la malattia impedisca di renderla, ha diritto a un computo del periodo di comporto per così dire personalizzato, integrando quest’ultimo anch’esso un accomodamento ragionevole esigibile a tutela del disabile.

Quest’ultimo è il tema delle tre decisioni in esame, che si riferiscono a fattispecie in cui il lavoratore era stato licenziato per superamento del periodo di comporto e recepiscono l’evoluzione della nozione di malattia introdotta dalla corte comunitaria, in base alla quale la malattia qualificabile come disabilità, esponendo il lavoratore che ne sia affetto al rischio di discriminazione, richiede l’adozione di specifiche misure di protezione.

In particolare, fino a oggi è stato considerato lavoratore disabile soltanto il lavoratore qualificato tale in base a specifiche normative, il quale, in riferimento all’istituto del comporto, è però sempre stato equiparato agli altri lavoratori (salvo soltanto il diritto di provare che la malattia che ne ha provocato il superamento è stata determinata, o aggravata, dall’adibizione a mansioni incompatibili con la ridotta capacità lavorativa): entrambi i postulati sono oggi superati.

Quanto al primo, fondamentale è la premessa – chiaramente esposta dal Tribunale di Rovereto (sentenza n. 44 del 30 novembre 2023) e dal Tribunale di Roma (ordinanza 18 dicembre 2023, cron. n. 124423) – per la quale la disabilità meritevole di tutela antidiscriminatoria non è soltanto quella riconosciuta a norma della l. n. 104/1992, della l. n. 68/1999 o di altre specifiche nozioni di inidoneità o di inabilità dettate da disciplinare settoriali del diritto interno, posto che, in ambito giuslavoristico, la condizione di disabilità dipende unicamente dalla condizione di menomazione del lavoratore.

In particolare, per il Tribunale di Roma l’accertamento medico legale non è neppure necessario, bastando l’oggettiva sussistenza della disabilità; quanto al secondo, l’applicazione di un periodo di comporto di ugual durata sia ai lavoratori disabili, sia a quelli abili, rappresenta una condotta di discriminazione indiretta e le norme del c.c.n.l. che non prevedano un distinto criterio di computo violano la legge.

Occorre allora individuare quali siano gli accomodamenti ragionevoli che il datore di lavoro deve adottare, in riferimento al computo del periodo di comporto del lavoratore affetto da disabilità e, a monte, comprendere come si possa esigere dal medesimo la conoscenza della specificità del caso.

Il Tribunale di Rovereto statuisce che, nel caso di specie, accomodamento ragionevole sarebbe stato quello di avvisare il disabile dell’approssimarsi della scadenza del periodo di comporto, in modo da metterlo nelle condizioni di richiedere l’aspettativa prevista dal c.c.n.l., ma tale soluzione non pare coerente con la premessa, perché presuppone che il periodo di comporto da considerare resti uguale a quello valido in generale.

Per il Tribunale di Roma – che non ha riconosciuto il diritto alla personalizzazione del comporto, stante il difetto di specifica allegazione della gravità delle patologie – sul piano astratto sarebbe accomodamento ragionevole lo scomputo, dal periodo di comporto, delle assenze dovute all’invalidità e nel medesimo senso pare ragionare anche la Corte d’Appello di Roma (sentenza n. 3716 del 27 novembre 2023), la quale accerta la discriminazione indiretta ricavandola proprio dalla ricomprensione nel periodo di comporto di malattie che i giudici ritengono chiaramente riconducibili alla menomazione che ha dato luogo all’invalidità, sulla base dalle diagnosi dei certificati medici.

La motivazione di quest’ultima decisione non lascia trasparire quali certificati medici siamo stati esaminati, ma, essendo espressa nei medesimi la diagnosi, è lecito concludere che siano quelli di competenza dell’I.N.P.S. e non, invece, quelli conosciuti dal datore di lavoro: in proposito, si legge soltanto che detti certificati non sarebbero stati contestati. Ora, se è vero che il modello di attestato di malattia contiene il riquadro “stato patologico sotteso o connesso alla situazione di invalidità riconosciuta” e che, ove il medesimo sia barrato, la conoscenza datoriale della riconducibilità dell’assenza alla patologia invalidante è garantita, è altrettanto vero che l’orientamento giurisprudenziale che sta consolidandosi vale anche al cospetto di una certificazione medica priva di tale informazione, ricevendo la quale il datore di lavoro non ha alcun modo di calcolare il comporto distinguendo tra eventi computabili ed eventi non computabili, in quanto cagionati dalla patologia portatrice di disabilità e, a monte, non ha neppure modo di sapere con certezza se il lavoratore assente sia disabile.

Il rischio, allora, è quello di sconfinare in una fattispecie di responsabilità oggettiva, e infatti, la sentenza della Corte d’Appello di Roma si cura di evidenziare come, al contrario della discriminazione diretta, la quale si integra in presenza di una condotta imputabile al datore di lavoro, l’accertamento della discriminazione indiretta prescinda affatto da profili di colpa, andando a sanzionare gli effetti distorti delle previsioni di carattere generale sui lavoratori svantaggiati.

Tale chiave di lettura è la medesima offerta dalla sentenza 31.3.2023, n. 9095, della Corte di cassazione, nella cui motivazione si legge che il lavoratore disabile è maggiormente esposto a incorrere in assenze involontarie funzionalmente collegate alla sua situazione morbosa; onde, proseguono i Giudici di legittimità, in mancanza di diversi accertamenti sulla ragione da porre a fondamento delle assenze, le stesse devono essere ricondotte alla medesima causa che ha generato l’invalidità fisica del lavoratore, con la conseguenza che, in attesa di una regolamentazione (legislativa e contrattuale) teleologicamente indirizzata ad un criterio di eguaglianza tra lavoratori disabili e non, il licenziamento irrogato per superamento del periodo di comporto deve ritenersi nullo, in quanto in contrasto con principi di rango costituzionale e con ormai consolidati orientamenti della Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

Si rinvia, in proposito, anche per gli ulteriori riferimenti, al commento di Filippo Bordoni, Il periodo di comporto può essere discriminatorio. Tra discriminazione indiretta e accomodamenti ragionevoli: la Cassazione puntualizza, in Labor, 13 giugno 2023.

A questo punto, il datore di lavoro, ogni volta che abbia il sentore della condizione di disabilità del lavoratore assente in malattia, dovrà interrogarsi sull’accomodamento da adottare al fine del calcolo del comporto, anche ragionando di un impostare un dialogo con la controparte, mirato a individuare le ragioni dell’assenza e le assenze computabili, da tenersi in davvero difficile equilibrio con i principi del diritto alla privacy ma in qualche modo sorretto dal fondamentale obbligo di collaborazione che continua a gravare anche sul lavoratore malato.

Certamente, la contrattazione collettiva potrà contribuire ad allontanare la fattispecie dal campo della responsabilità oggettiva, ponendo a carico del lavoratore disabile assente in ragione della sua patologia un obbligo di informazione, soltanto ottemperando al quale egli potrà ottenere la sospensione del computo del periodo comporto (come già per analoghe fattispecie: v. ad esempio in taluni contratti il lavoratore oncologico o quello che assuma terapie salvavita).

Michele Caro, avvocato in Massa

Visualizza i documenti: Trib.Rovereto, 30 novembre 2023, n. 44; Trib. Roma, ordinanza 18 dicembre 2023, cron. n. 124423; App. Roma, 27 novembre 2023, n. 3716

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