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La “rivoluzione silenziosa” della giurisprudenza, dal mobbing all’ambiente lavorativo stressogeno: l’inizio di un nuovo modo di giudicare?

16 Novembre 2024|

Mobbing e stress lavoro-correlato: le traiettorie parallele e il lento mutamento di senso nel diritto vivente.

“La coscienza umana si muove ma non a grandi passi, pochi centimetri alla volta. Pochi centimetri sono un piccolo salto, ma quel piccolo salto è tutto”.

Queste parole di un noto artista, Philip Guston, illustrano meglio di ogni altro discorso la natura del processo di innovazione del diritto. Processo che, almeno per ciò che riguarda il tema in oggetto e con buona pace dei fautori delle “mitologie giuridiche della modernità”, ha come protagonista la giurisprudenza che, nel percorso che andremo brevemente a descrivere, assume una funzione “giuspoietica”.

Partiamo dal 16 novembre 1999 quando, con una sentenza ormai passata alla storia, il mobbing fa il suo ingresso nel mondo del diritto. La definizione del fenomeno che si può leggere nella motivazione del Giudice del Lavoro di Torino, mutuata sia dalle scienze etologiche che dalla psicologia del lavoro, segna un’autentica rivoluzione, un vero e proprio “salto metodologico” che porta il diritto a dialogare attivamente con altre discipline, in un processo di mutua osmosi.

Ecco spiegato il riferimento del giudice torinese “al comportamento di alcune specie animali, solite circondare minacciosamente un membro del gruppo per allontanarlo. Spesso nelle aziende accade qualcosa di simile, allorché il dipendente è oggetto ripetuto di soprusi da parte dei superiori e, in particolare, vengono poste in essere nei suoi confronti pratiche dirette a isolarlo dall’ambiente di lavoro e, nei casi più gravi, a espellerlo: pratiche il cui effetto di intaccare gravemente l’equilibrio psichico del prestatore, menomandone la capacità lavorativa e la fiducia in sé stesso e provocando catastrofe emotiva, depressione e talora persino suicidio”.

Pur risolvendosi in una “vittoria di Pirro” per la lavoratrice (cfr. R. COLANTONIO, Vent’anni dopo: rileggere la prima sentenza italiana sul Mobbing, NT Diritto Plus, Gruppo 24 ore, 31 marzo 2021), a cui viene riconosciuto un risarcimento equivalente a poco più di cinquemila euro in moneta attuale, la pronuncia dà avvio ad un periodo di particolare attivismo della giurisprudenza -soprattutto di merito- che, utilizzando l’elastica fattispecie dell’art. 2087 c.c., costruisce nuovi meccanismi di tutela adatti ai nuovi rischi lavorativi, prepotentemente emersi a cavallo del nuovo millennio.

Si tratta dei cosiddetti “rischi psico-sociali” o da “costrittività organizzativa”, che mettono in rilievo il nesso tra le disfunzioni dell’organizzazione lavorativa da un lato e i disturbi psico-fisici dei prestatori di lavoro dall’altro; un nesso che, fino ad allora, era rimasto pressoché nascosto o quantomeno superficialmente confuso con l’istintivo richiamo alla chapliniana alienazione tecnologica dei “Tempi moderni”.

Scattiamo un’istantanea: siamo agli inizi degli anni duemila, il percorso si diparte in due sentieri. Il primo, calcato per oltre un ventennio dalla giurisprudenza, segue la direzione delle vessazioni e delle persecuzioni lavorative. Il secondo, attraversato dalla prassi amministrativa e -timidamente- dal legislatore, si concentra invece sull’analisi delle disfunzioni, sulla prevenzione e sul contrasto degli effetti potenzialmente stressogeni dell’organizzazione lavorativa, meglio conosciuti con il nome di stress lavoro-correlato.

Da un lato, un diluvio di cause di mobbing ma ben poche sentenze di accoglimento (cfr. D. TAMBASCO, Violenza e molestie nel mondo del lavoro. Un’analisi della giurisprudenza del lavoro italiana, Roma, OIL, 2022, p. 7 e ss.). Dall’altro, il mal riuscito tentativo di INAIL di codificare i “rischi da costrittività organizzativa” nella nota circolare n. 71/2003 (poi annullata dalla sentenza del TAR Lazio, sez. III-ter, 4 luglio 2005, n. 5454, confermata dal Consiglio di Stato, sez. VI, 17 marzo 2009, n. 1576), a cui si affianca l’introduzione a livello europeo della nozione di stress lavoro-correlato (cfr. Accordo Quadro dell’8 ottobre 2004, recepito in Italia dall’Accordo Interconfederale del 9 giugno 2008), espressamente richiamata dal legislatore italiano che, quasi al volgere del primo decennio degli anni duemila, afferma il cogente dovere datoriale di prevenzione dei relativi rischi (art. 28, comma 1 d.lgs. 81/2008).

Si tratta di due linee distinte, che corrono parallele per un lungo periodo di tempo.

Il diritto vivente, nel frattempo, raffina progressivamente la nozione di mobbing, che assume così una fattezza para-penalistica, animata dalla ricerca di un intento persecutorio (o animus nocendi) unificante la pluralità di condotte illecite o anche lecite del soggetto agente (mobber), in un complesso tale da denotare una sistematicità vessatoria. In questo cammino giurisprudenziale, non mancano le pronunce che -seguendo le orme di un pioniere della psicologia del lavoro- si avventurano “oltre il mobbing” (H. EGE, Oltre il mobbing, Milano, Franco Angeli, 2005). È la nascita dello straining, definito a torto dalla giurisprudenza di legittimità quale “mobbing attenuato” (Cass., 4 novembre 2016, n. 3291; Cass., 19 febbraio 2018, n. 3977) che, però, nella progressiva evoluzione del proprio genoma, inizia a manifestare una variazione foriera di importanti sviluppi: il riferimento alla natura stressogena della singola condotta strainizzante.

Siamo alle porte degli anni Venti.

Il “formante” giurisprudenziale impone una torsione alla prima traiettoria percorsa dal diritto vivente. Quando, infatti, la Corte di cassazione inizia ad affermare che lo straining si configura anche in assenza di intento persecutorio, potendo «anche derivare, tout court, dalla costrizione della vittima a lavorare in un ambiente di lavoro ostile, per incuria e disinteresse nei confronti del suo benessere lavorativo con conseguente violazione da parte datoriale del disposto di cui all’art. 2087 cod. civ.» (Cass., 29 marzo 2018, n. 7844, cit.; Cass., 4 ottobre 2019, n. 24883), il dado è ormai tratto: il rilevante passaggio di senso dal “mobbing attenuato” allo “stress forzato” inizia ad avvicinare la prima linea di tendenza alla seconda che, nel frattempo, era rimasta di fatto immutata nel corso degli anni, in una permanente stasi normativa. Lo stress lavoro-correlato, relegato ai margini dei repertori giurisprudenziali, era stato infatti -fino ad allora- una nozione rilevante quasi esclusivamente nella redazione dei DVR e delle linee guida INAIL.

La fusione: ambiente stressogeno e conflittualità lavorativa.

Arriviamo così ai tempi attuali, che seguono il periodo post-pandemico e risentono fortemente della sempre più marcata attenzione alla qualità e al benessere della vita lavorativa (pensiamo al fenomeno delle “Grandi Dimissioni”), dove la salute viene concretamente intesa anche dalla giurisprudenza (Cass., 7 giugno 2024, n. 15957) nella sua accezione positiva distato di completo benessere fisico, mentale e sociale” (cfr. Trib. Vibo Valentia, 26 ottobre 2023, n. 736, che ascrive alla responsabilità datoriale anche la mancanza di “serenità dello spazio lavorativo”), in conformità con il dettame normativo sia internazionale (Costituzione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità del 7 aprile 1948; Conv. OIL n. 155 del 1981; Carta di Ottawa per la promozione della salute) che nazionale (art. 2, comma 1, lett. o) d.lgs. 81/2008).

Eccoci, dunque, al punto di incontro di queste linee originariamente distinte, punto segnato dalle sempre più numerose pronunce della giurisprudenza di legittimità che, a partire dal 2022, facendo uso della “valvola di apertura” dell’art. 2087 c.c., ha portato la law in action alla valorizzazione di una “prospettiva di progressiva rilevanza della dimensione organizzativa quale fattore di rischio per la salute dei lavoratori, imponendo come prioritaria “l’obbligazione di sicurezza gravante sul datore di lavoro, che consente di configurare la responsabilità datoriale a fronte di un mero inadempimento -imputabile anche solo per colpa- che si ponga in nesso causale con un danno alla salute, secondo le regole generali sugli obblighi risarcitori conseguenti a responsabilità contrattuale” (Cass., 15 novembre 2022, n. 33639, par. 2.3.4).

Ne è derivata, nella concreta prassi giudiziale, l’emersione della responsabilità datoriale nei casi di stress forzato, sostanziatasi nell’“inadempimento datoriale ad obblighi di appropriatezza nella gestione del personale, già rilevante ai sensi dell’art. 2087 c.c.”, fino a ricomprendervi “tutti i comportamenti, anche in sé non illegittimi, ma tali da poter indurre disagi o stress, che si manifestino isolatamente o invece si connettano ad altri comportamenti inadempienti, contribuendo ad inasprirne gli effetti e la gravità del pregiudizio per la personalità e la salute latamente intesi” (Cass., sez. lav., 7 febbraio 2023, n. 3692; Cass. 30 novembre 2022, n. 35235; Cass. 15 novembre 2022, n. 33639; Cass. 11 novembre 2022, n. 33428).

In questa nuova ottica, dunque, assume valore dirimente “l’ambiente lavorativo stressogeno quale fatto ingiusto, suscettibile di condurre anche al riesame di tutte le altre condotte datoriali allegate come vessatorie, ancorché apparentemente lecite o solo episodiche, in quanto la tutela del diritto fondamentale della persona del lavoratore trova fonte direttamente nella lettura, costituzionalmente orientata, dell’art. 2087 c.c.” (Cass. 28 dicembre 2023, n. 36208; Cass. 7 febbraio 2023, 3692, cit.; Cass. 15 novembre 2022, n. 33639, cit.; Cass. 11 novembre 2022, n. 33428, cit.; Cass. 25 ottobre 2022, n. 31514).

La valorizzazione della dimensione organizzativa, tanto sul piano del contrasto quanto su quello della prevenzione (Cass. 16 febbraio 2024, n. 4279; Cass. 26 febbraio 2024, n. 5061; Cass. 12 febbraio 2024, n. 3791), ha condotto la Corte di cassazione a rivalutare una pluralità di pronunce dei giudici di appello in materia di vessazioni lavorative, arrivando a riformulare il problema in termini nuovi, sintetizzati dall’inedita categoria della “conflittualità lavorativa” (per cui la psicologia del lavoro ha coniato il nome di eristress, cfr. H. EGE, D. TAMBASCO, L’eristress, ovvero dello stress da conflittualità lavorativa: l’emersione di un nuovo fenomeno nella giurisprudenza di legittimità, Ius Lavoro, 17 aprile 2024). Categoria in cui si condensa la colposa responsabilità datoriale per il mantenimento di condizioni di lavoro stressogene derivanti dalla conflittualità interpersonale presente sul luogo di lavoro (cfr. Cass. 19 gennaio 2024, n. 2084, par. 10, che parla di “contribuzione causale alla creazione di un ambiente logorante e determinativo di ansia”).

L’esito di questa fusione è ben illustrato da una pronuncia della Corte dei Conti che, all’inizio del 2024, ha rilevato come “l’orientamento giurisprudenziale più recente tende ad ampliare la tutela risarcitoria in favore del lavoratore, condannando tutti quei comportamenti datoriali idonei a creare un ambiente lavorativo stressogeno e lesivo della salute e della dignità del lavoratore, quali beni primari tutelati dalla Costituzione” (Corte dei Conti Trentino – Alto Adige, sez. giurisdiz., 16 gennaio 2024, n. 1, par. 2.7.5).

Un nuovo modo di giudicare: la sentenza del Tribunale di Rimini, 18 luglio 2024, n. 203.

Qual è il riflesso pratico della nuova “Weltanschauung giurisprudenziale”?

È presto detto: ci troviamo di fronte ad un nuovo modo di giudicare, ben evidenziato dalle prime pronunce di merito che, facendo propri i principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità, inaugurano un percorso inedito tanto sul piano sostanziale quanto su quello processuale.

A questo proposito, la recente pronuncia del Tribunale di Rimini del 18 luglio 2024, n. 203, fornisce degli elementi di analisi estremamente utili.

Partiamo dal contesto: viene in rilievo “un ambiente di lavoro opprimente, stressante ed avvilente” –come si può leggere nella motivazione della sentenza- in cui non solo il ricorrente, ma anche tutti i dipendenti sono esposti continuativamente a urla e ad un linguaggio scurrile fatto di bestemmie e imprecazioni.

Il focus, dunque, non è su una condotta persecutoria, ma su un ambiente nocivo in cui rilevante non è l’azione del mobber, bensì l’esposizione del dipendente. Dicotomia che a sua volta richiama la distinzione tra responsabilità per fatto commissivo doloso, tipica della fattispecie mobbizzante, e responsabilità per omissione colposa caratteristica, invece, della fattispecie stressogena.

Il passaggio logico è consequenziale: la centralità dell’organizzazione nello scrutinio giudiziale, infatti, involge primariamente il piano dell’obbligo di prevenzione, ovverosia di “adozione di ogni misura diretta alla tutela della salute e sicurezza dei lavoratori, come ad esempio le misure di sicurezza da adottare in concreto nella organizzazione tecnico-operativa del lavoro allo scopo di prevenire ogni possibile rischio…previsto dall’art. 28 d.lgs. 81/2008” (Trib. Rimini, 18 luglio 2024, n. 203, cit.). Il che significa, in concreto, che al dipendente esposto ad un ambiente nocivo o molesto non si potrà contestare la mancata denuncia, in via preventiva, dell’anomala situazione di lavoro; al contrario, sarà unicamente da ascrivere alla responsabilità datoriale l’omissione dei doveri di prevenzione rispetto ai rischi da stress lavorativo, incombenti tanto in via generale (art. 28, comma 1, d.lgs. 81/2008) quanto in via speciale rispetto, ad esempio, ai rischi da molestie (art. 26, comma 3-ter, d.lgs. 198/2006).

D’altro canto, questa nuova prospettiva porta con sé anche rilevanti ripercussioni sul piano processuale, prime fra tutte quelle inerenti alla riqualificazione della domanda introduttiva del giudizio.

In particolare, considerato che il nuovo orientamento sorto in tema di ambienti stressogeni si basa sull’interpretazione evolutiva dell’art. 2087 c.c., appare evidente l’applicazione di quella giurisprudenza consolidata che, già da tempo, ha affermato il principio di diritto secondo cui, anche in presenza di una specifica domanda di mobbing da parte del ricorrente, il Giudice può autonomamente procedere alla riqualificazione – eventualmente applicando anche norme di legge diverse da quelle invocate dalle parti e ferma restando l’identità dei fatti allegati – e valutare la violazione del dovere generale di tutela ex art. 2087 c.c. Violazione che, laddove accertata, fa scattare la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno patito dal prestatore (cfr. Cass., 7 febbraio 2023, n. 3692, cit.; Cass., 30 novembre 2022, n. 35235, cit.; Cass. 15 novembre 2022, n. 33639, cit.; Cass. 11 novembre 2022, n. 33428, cit.).

Se in concreto, dunque, in un recente passato l’originaria domanda di mobbing poteva portare il giudice -soprattutto nei casi di demansionamento prolungato- alla riqualificazione nel diverso fenomeno dello straining (Cass., 7 febbraio 2023, n. 3692, cit.), oggi in modo analogo al giudice viene attribuito il potere di riconfigurare le allegazioni del ricorrente, asserita vittima di persecuzioni lavorative, nei termini dell’esposizione a un ambiente di lavoro nocivo e stressogeno: siamo sempre nel perimetro della violazione dei cogenti doveri di prevenzione e protezione dell’integrità psico-fisica e morale del prestatore di lavoro, definiti proprio dall’art. 2087 c.c.

Una seconda -e inedita- ricaduta processuale appare ancora enucleabile dalla pronuncia di merito in commento. Si fa riferimento, più precisamente, alla natura dei capitoli di prova ammessi dal tribunale riminese per lo svolgimento dell’istruttoria orale, che è il caso di riportare nella loro integralità:

Vero che X, diretto superiore del ricorrente nonché marito della legale rappresentante della società Y : – ha espresso sul luogo di lavoro reiterate critiche in merito al rendimento ed alle capacità lavorative del ricorrente; – ha offeso il ricorrente mediante l’utilizzo di parole oscene, o con espressioni aggressive, prepotenti ed umilianti, nonché razziste e minacciose; – ha tenuto nei confronti del ricorrente condotte prevaricanti alzando spesso il tono della voce con scatti d’ira nonché rimproverandolo, ingiuriandolo e creando in tal modo un ambiente di lavoro opprimente, stressante ed avvilente?”.

Sembrerebbe, ad una superficiale lettura, un capitolo di prova generico, ai limiti dell’ammissibilità prevista dal codice processuale civile che prescrive la deduzione specifica dei fatti (art. 244 c.p.c.).

Una diversa valutazione, aderente alla decisione assunta dalla sentenza in esame, viene tuttavia suggerita dalla invalsa giurisprudenza della Corte di cassazione che, sul solco della disposizione codicistica, ha affermato come l’idoneità della specificazione dei fatti dedotti dalle parti nei capitoli di prova non debba desumersi soltanto dalla loro formulazione letterale, bensì anche da tutti gli altri atti e dalle deduzioni delle parti contendenti in causa (Cass. civ., sez. I, 31 gennaio 2007, n. 2201; Cass. civ., sez. III, 12 febbraio 2008, n. 3280).

In questa prospettiva “relativista”, pertanto, assume valore primario la natura delle contestazioni svolte nei confronti della controparte che, nel caso di specie, attiene all’esistenza di un ambiente di lavoro nocivo e stressogeno.

Si tratta, infatti, di un tipo di responsabilità in cui -come abbiamo visto poc’anzi- non rilevano gli autori materiali delle condotte ma, al contrario, è posta in primo piano la colpevole inerzia datoriale nella produzione di un ambiente nocivo, stressogeno e molesto: una responsabilità “di posizione”, dovuta alla negligente e colpevole inerzia del datore di lavoro tanto sul piano della omessa prevenzione quanto su quello dell’omesso controllo di situazioni lavorative stressogene.

È il perimetro della responsabilità datoriale, quindi, a condizionare anche la morfologia dell’allegazione e della capitolazione probatoria: il relativo contenuto, quindi, potrà consistere anche nella generale descrizione di situazioni stressogene, negli stessi termini ammessi dal giudice riminese. Diversamente, si impedirebbe al ricorrente di esplicare in modo compiuto il proprio diritto di difesa, vanificando l’effettività della tutela.

Conclusioni

Tiriamo le fila.

Nella storia che abbiamo appena descritto è in primo piano l’apporto “inventivo” della giurisprudenza che, nel cuore della quotidiana lotta per il diritto combattuta nelle aule dei tribunali, opera una fusione “a caldo” tra materiali di diversa fattura e provenienza: nozioni etologiche quali il mobbing, biologiche quali lo stress e giuridiche quali la clausola generale dell’art. 2087 c.c. e lo stress lavoro-correlato dell’art. 28 d.lgs. 81/2008, vengono ricombinate in un’inedita fattispecie unitaria, idonea a disciplinare e fornire adeguata tutela ai nuovi rischi emergenti nell’era del lavoro digitale.

Del resto, “se il diritto è un sistema di regole in movimento da porre e riproporre continuamente, è chiaro che l’attività principale del giurista non è più la interpretazione di un diritto già fatto, ma la ricerca di un diritto da fare; ed il ruolo della fantasia nella creazione è evidente” (V. PANUCCIO, La fantasia nel diritto, Milano, Giuffrè, 1984, p. 117). Innovazione che, come abbiamo visto, non nasce dal nulla ma ha invece un saldo fondamento normativo e scientifico; in questo senso, l’inventio è il reperimento di qualcosa che sta prima del giudizio, affondando radici profonde nel suolo della società contemporanea (P. GROSSI, Oltre la legalità, Roma-Bari, Laterza, 2020, p. 106).

Si è parlato, nelle pagine precedenti, di una nuova “Weltanschauung giurisprudenziale”; se volessimo essere più puntuali, dovremmo però parlare di nuova “epistemologia giuridica”, che affranca il diritto dalla sua torre d’avorio giuspositivistica, divenuta con il passare del tempo una sterile gabbia esegetica.

Ed è proprio al dialogo tra differenti discipline che si deve questo “salto quantico” del diritto che, nel nostro tema di elezione, dimostra una verità antica di secoli: la natura unitaria del sapere e della conoscenza, che sola può consentire di comprendere la pluralità delle trame di cui è intessuta una realtà indefettibilmente policroma e complessa.

Domenico Tambasco, avvocato in Milano

Visualizza il documento: Trib. Rimini, 18 luglio 2024, n. 203

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