La Corte di giustizia esclude la discriminazione laddove il momento dell’accesso al trattamento pensionistico sia differenziato per motivi legati alla sostenibilità del sistema previdenziale
9 Marzo 2024|1. Il caso e il quesito posto alla Corte
La fattispecie oggetto della sentenza BF del 20 aprile 2023 (causa C-52/22) presenta aspetti di interesse, poiché il lavoratore austriaco, pensionato dal 1° luglio 2020, che agiva nella causa principale, lamentava ritardi nell’adeguamento della sua pensione rispetto ai colleghi più giovani, ipotizzando una discriminazione per età.
Il diverso trattamento sarebbe conseguenza dei numerosi interventi legislativi operati nel sistema previdenziale austriaco, sui quali non ci soffermiamo per la sua complessità (descritta analiticamente nei § da 8 a 15 della sentenza), che aveva visto il succedersi di molteplici correzioni degli indici per il calcolo e l’accesso al trattamento pensionistico, portando anche ad una differenziazione nell’applicazione dei criteri di aggiornamento delle pensioni.
In particolare, per quanto qui rileva, secondo il previgente regime pensionistico del 1965 (art. 41, della legge sull’armonizzazione delle pensioni, PG 1965), poi modificato nel 2020 (PG 2020), il trattamento di BF, collocato in pensione dal 1° luglio 2020, risultava quantificato in una quota della pensione ponderata in funzione dei periodi di servizio effettuati prima o dopo il 1995. A tale trattamento si aggiunge un’altra quota calcolata secondo una riforma sull’armonizzazione del sistema (APG), entrata in vigore nel 2005 (che nel caso di BF incideva per il 9,2% sull’importo pensionistico totale). Il trattamento complessivo, così individuato, è quindi costituito secondo un regime definito “parallelo”.
Secondo tale regime, “la fissazione dell’importo delle loro pensioni di vecchiaia è effettuata, per quanto riguarda i periodi di assicurazione maturati prima del 2005, conformemente al PG 1965 e, per quanto riguarda i periodi di assicurazione maturati a partire dal 2005, ai sensi dell’APG, tenendo conto dei periodi di servizio maturati per adeguare tale importo di conseguenza” (così CGUE, sentenza BB del 27.04.23, C-681/21, pt. 19, che tratta della medesima questione, sotto un diverso aspetto che qui non rileva). In sintesi “per coloro che all’inizio del 2005 non hanno ancora raggiunto il 50° anno di età, ma hanno già accumulato un determinato periodo assicurativo, vengono applicate sia la vecchia che la nuova normativa. La pensione viene determinata in base a un calcolo parallelo, secondo il criterio pro rata temporis” (v. Commissione europea, I diritti di previdenza sociale in Austria, in ec.europa.eu, pag. 15, 2012). Il trattamento così risultante veniva adeguato al costo della vita a partire dal secondo anno civile successivo dalla sua maturazione, nella specie il 1° gennaio 2022.
Viceversa, per coloro che accedevano al trattamento pensionistico con il solo sistema APG (applicabile dal 2005 in poi: § 18 e 21 sentenza) dal 1° gennaio 2022, lo stesso veniva adeguato a far data dal 1° gennaio del primo anno successivo a quello dell’accesso alla pensione.
La differenza di trattamento spettante tra i due regimi risulterebbe oggi essere stata superata dall’art. 41, par. 2, come rimodulato dal PG 2022 (§ 23 sentenza), ma solo per il futuro, sicché, in tal caso, la differenza di trattamento rimarrebbe comunque in ragione dei ritardati adeguamenti effettuati nel passato per i fruitori del regime “parallelo”.
BF aveva agito in via amministrativa sostenendo che tale disparità di trattamento costituiva una discriminazione per età e, dopo avere ricevuto risposta negativa aveva agito avanti alla Corte federale che ha ritenuto di interrogare la Corte di giustizia formulando il seguente quesito: “Se gli articoli 2, paragrafi 1 e 2, lettera a), e 6, paragrafo 1, della direttiva [2000/78], e i principi della certezza del diritto, salvaguardia dei diritti acquisiti ed effettività del diritto dell’Unione debbano essere interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale, come quella controversa nel procedimento principale, in base alla quale il primo adeguamento dei diritti pensionistici per la categoria di dipendenti pubblici che aveva maturato un diritto alla pensione [ai sensi del PG 2020] entro il 1° dicembre 2021 va riconosciuto solo con efficacia a partire dal 1° gennaio del secondo anno civile successivo alla data di maturazione del diritto alla pensione, mentre per la categoria di dipendenti pubblici che ha maturato o maturerà diritti pensionistici solo a partire dal 1° gennaio 2022 [ai sensi del PG 2022] il primo adeguamento dell’importo pensionistico deve avvenire con effetto già dal 1° gennaio dell’anno civile successivo alla data di maturazione del diritto alla pensione”.
2. La sentenza, le questioni formali
La prima questione riguarda la ricevibilità, contestata dal governo austriaco sotto due aspetti: il primo che il giudice rimettente si sarebbe limitato ad esporre la discriminazione che affligge il ricorrente nella causa principale, senza verificare in concreto la situazione, ma rinviando unicamente alle considerazioni svolte dall’interessato. Sotto un secondo profilo eccepisce che nel quesito mancherebbe una valutazione in merito alla compatibilità della normativa nazionale “con i principi della certezza del diritto, della salvaguardia dei diritti acquisiti e di effettività del diritto dell’Unione”, cui si fa generico riferimento.
Si tratta, come si vede, di eccezioni soprattutto formali e, in parte, infondate, avendo invece il giudice rimettente precisato le ragioni del rinvio, che consistevano nella discriminazione oggettiva che riguardava il trattamento del ricorrente, rispetto ad altri soggetti che venivano trattati diversamente a seconda del periodo di maturazione del diritto al pensionamento, senza alcun’altra ragione oggettiva. Ciò non di meno, la questione merita un cenno poiché la Corte coglie l’occasione per richiamare (§ 33) i principi generali che regolano il rinvio pregiudiziale, ribadendo i concetti più volte espressi e che vale la pena di ricordare sinteticamente.
La Corte osserva che non è suo compito valutare l’esattezza del contesto, di fatto e di diritto che hanno indotto il giudice ad effettuare il rinvio, poiché tale valutazione ricade sotto la responsabilità del giudice rimettente. Il procedimento ex art. 267 Tfue è uno strumento “di collaborazione” tra la Corte e il giudice nazionale, sicché il primo fornisce al secondo non pareri consultivi o ipotetici, bensì “gli elementi di interpretazione del diritto dell’Unione” che risultano necessari per la decisione della controversia specifica. Come specifica l’art. 276 Tfue, infatti, la richiesta di pronuncia pregiudiziale deve essere necessaria al fine della decisione della causa principale.
Al giudice rimettente, compete (art. 94, lett. c), regolamento di procedura, indicare con precisione i motivi che rendono necessario interrogare la Corte sull’interpretazione del diritto dell’Unione e il collegamento tra le relative disposizioni e quelle nazionali in contestazione nel giudizio principale (sentenza Nama, 24.3.2021, C-771/19, pt. 23).
Nella specie, il giudice austriaco ha espresso i dubbi sulla conformità dell’art. 41 d, par. 2, del PG 2022 alle norme europee già citate e ai principi di certezza del diritto, di salvaguardia dei diritti acquisiti e di effettività del diritto dell’Unione, così delimitando e precisando i motivi della richiesta di chiarimenti alla Corte, pur non dilungandosi sul collegamento tra la norma nazionale e tali principi.
Pur tuttavia, risulta chiaro dalla citazione dei principi di cui alla sentenza Safewai (del 07.10.19, C-171/19) che il giudice austriaco si riferisce all’obbligo “di rimuovere un discriminazione in modo immediato e completo”.
La Corte ribadisce quindi la sua giurisprudenza secondo la quale la richiesta del giudice rimettente è ammissibile quando, anche in presenza di carenze di allegazione dei parametri normativi, sia chiaro il quesito al giudice europeo, a differenza, ad esempio, della Corte costituzionale italiana che invece è molto rigida sulla inammissibilità dei quesiti del giudice di merito, ove manchino gli esatti riferimenti formali della norma sottoposta all’esame di costituzionalità.
Precisa, infatti, il giudice europeo (§ 38) che anche ove manchi, da parte del giudice del rinvio, il riferimento a talune norme dell’Unione, non osta a che la Corte , “dall’insieme degli elementi forniti” nel rinvio, individui d’ufficio gli elementi del diritto europeo che rilevano ai fini della soluzione dei quesiti proposti.
Nel caso esaminato, dal rinvio effettuato non risulta che si sia limitata la critica alla norma nazionale solo sotto il profilo di una possibile discriminazione diretta (ex art. 2, par. 2, lett. a), escludendo così una discriminazione indiretta (ex art. 2, par. 2, lett. b) della direttiva 2000/78. Si deve dunque intendere che la richiesta di esame vada effettuata con riferimento ad entrambi i fenomeni di discriminazione, tenendo conto anche dell’art. 6 della direttiva stessa, secondo il quale non sussiste discriminazione laddove il diverso trattamento risulti ragionevolmente giustificato, “nell’ambito del diritto nazionale, da una finalità legittima, compresi giustificati obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale, e i mezzi per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari”. Ne consegue che il giudice rimettente interroga la Corte sulla legittimità di una normativa la quale, nell’ambito “di un allineamento progressivo del regime pensionistico dei dipendenti pubblici al regime pensionistico generale, il primo adeguamento dell’importo della pensione di vecchiaia di un categoria di dipendenti pubblici intervenga a partire dal secondo anno civile successivo alla maturazione del diritto alla pensione, mentre, per un’altra categoria di dipendenti pubblici, detto adeguamento avviene sin dal primo anno civile successivo alla maturazione di tale diritto” (§ 39).
3. Nel merito della dedotta discriminazione
Ciò chiarito sotto il profilo processuale la Corte, venendo al merito, verifica se la normativa controversa rientri o meno nel campo di azione della direttiva 2000/78; sulla questione la risposta è positiva, posto che il contenuto e la finalità della direttiva consistono nel garantire la parità di trattamento in materia di occupazione e di lavoro “a tutte le persone, sia nel settore pubblico che in quello privato”, evitando ogni discriminazione per ogni motivo, tra i quali figura espressamente, all’art. 1, anche l’età.
La Corte precisa poi, come già ha avuto modo di decidere (sentenza BVAEV del 05.05.22, C-405/20), che la pensione ricade nel concetto di retribuzione, ai sensi dell’art. 157 Tfue, essendo un trattamento differito, in conseguenza diretta del rapporto di lavoro intercorso e calibrato sui periodi di servizio svolti. Tanto vale anche per la quota di pensione erogata in base all’APG, con adeguamento in tempi diversi da quella corrisposta per vecchiaia, a nulla rilevando che la sua percentuale sul complessivo trattamento sia minima, come nel caso specifico. Dunque, la controversia esaminata rientra nel campo di applicazione della direttiva 2000/78.
Chiariti questi punti, la Corte rileva che non ci si trova di fronte ad un caso di discriminazione diretta, poiché l’art. 41, par. 2 del PG 2022 si applica indipendentemente dall’età dei dipendenti pubblici interessati e fa riferimento unicamente alla data di accesso al trattamento pensionistico. (§ 47).
Risulta però che, ai sensi del precedente art. 41, par. 2, ultima frase del vecchio PG 2020, l’adeguamento della pensione di vecchiaia avviene, nel pregresso regime, solo con effetto al 1° gennaio del secondo anno successivo a quello di accesso al trattamento mentre, ai sensi dell’attuale art. 41, par. 2, del PG 2022, le pensioni di vecchiaia dei dipendenti pubblici federali che hanno o avranno diritto ad una pensione dal 1° gennaio 2022, si vedranno adeguare il trattamento, sulla base di un calcolo proporzionale, con effetto dal primo anno successivo alla maturazione del diritto alla pensione. Il collegamento tra l’età dell’accesso al trattamento pensionistico, in entrambi i casi è legato all’età e si può dunque affermare, secondo la Corte, che è individuabile una correlazione tra quest’ultima e la maturazione del diritto alla pensione.
Venendo alla discriminazione indiretta, la stessa è, da un lato, ravvisabile solo quando risulti che, nell’ambito di applicazione della normativa nazionale, la stessa incide negativamente e senza giustificazione su una percentuale significativamente più elevata, rispetto agli altri fruitori del trattamento mentre, dall’altro, non ricorre laddove ai soggetti che non hanno raggiunto una certa età si applichi una nuova normativa rispetto a coloro interessati, invece, da un vecchio quadro giuridico. In entrambi i casi, dunque, non ricorre una discriminazione indiretta (§ 49 e 50: la Corte cita, in proposito, la sentenza YS, 24-09.20, C-223/19, § 71 e 73).
Nello stesso senso, la normativa nazionale in discussione, trattando in maniera diversa i dipendenti pubblici austriaci laddove maturino il diritto alla pensione prima o dopo di una certa data, pare “fondarsi” solo “in modo indiretto sull’età” degli interessati, posto che detta normativa fa riferimento unicamente al dato oggettivo del sorgere del diritto, questione, questa, che spetterà comunque al giudice del rinvio verificare. Sul punto, il Governo austriaco aveva infatti precisato che i dipendenti pubblici possono accedere al trattamento pensionistico, di regola, a 65 anni, ma possono, in deroga e a talune condizioni, accedervi prima o dopo. In tale situazione, la differenziazione prevista dalla normativa nazionale (PG 2020 e 2022) sembra non porre in una situazione di particolare svantaggio i soggetti aventi una certa età rispetto ad altri, condizione che deve sussistere, ai sensi dell’art. 2, par. 2, lett. B) della direttiva 2000/78 per la apprezzabilità di una discriminazione indiretta.
Ove invece il giudice della causa principale dovesse ritenere che in effetti la normativa nazionale della quale si discute, comporti, in modo indiretto, una disparità di trattamento tra i dipendenti pubblici interessati, occorre allora verificare se tale disparità fondata sull’età non sia giustificata ai sensi dell’art. 6, par. 1, della direttiva e cioè se, il diverso trattamento, fondato sull’età, non si presenti come oggettivamente e ragionevolmente giustificato da una finalità legittima, e, precisamente, giustificati obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale, a condizione che le modalità utilizzate siano appropriate e necessarie.
Sul punto, gli stati membri godono di una certa discrezionalità sia nella scelta di quale obiettivo perseguire in materia di politica sociale e di occupazione sia nell’utilizzo dei mezzi necessari a raggiungerlo (si cita la sentenza Olympiako del 15.04.21, C-511/19, pt. 30).
Con riferimento a tale ultimo aspetto, la normativa nazionale in esame del 2022 risulta, dall’ordinanza di rinvio, avere come obiettivo un sistema di calcolo pro rata mensile che tenga conto sia del tempo trascorso tra il collocamento a riposo che del primo adeguamento applicabile, con la finalità di assimilare i diversi regimi di perequazione delle pensioni di vecchiaia, con lo scopo di evitare differenze rilevanti tra i diversi regimi di pensione succedutisi nel tempo (PG 1965 e PG del 2002).
Inoltre, emerge anche che l’art. 41, par. 2, del PG 2022, a fronte dell’attuale svalutazione costante della moneta e dell’aumento del costo della vita, è finalizzato a garantire il potere di acquisto dei pensionati pubblici sin dall’inizio del primo anno civile successivo al loro ingresso nel sistema pensionistico, tenendo conto in modo equo del tempo trascorso. Per quanto invece riguarda il “mantenimento «di un anno di attesa»” per gli ex dipendenti cui si applica l’art. 41 del PG 2020, tale scelta trova la sua ragione nella necessità di garantire il “finanziamento sostenibile” del sistema pensionistico generale.
La Corte, peraltro, non dimentica che le ragioni di bilancio non giustificano certamente una discriminazione fondata sull’età, ma l’obiettivo di mantenere la stabilità del sistema pensionistico, soprattutto laddove si coniuga con la finalità di ridurre il divario tra livelli di pensione finanziati dallo Stato, possono assumere natura di obiettivi legittimi di politica sociale, “come tali estranei a discriminazione fondata sull’età” (§ 59). Nella specie risulta infatti che la abbreviazione dei termini per l’adeguamento prevista dal PG 2022 abbia come obiettivo quello di compensare gli svantaggi tra il trattamento di coloro hanno acceduto successivamente al trattamento pensionistico rispetto agli ex dipendenti andati in pensioni in precedenza, consistenti nei livelli meno elevati delle pensioni riconosciute negli anni più recenti ai dipendenti pubblici a seguito delle varie riforme intervenute.
La valutazione della Corte è dunque che la riforma del PG 2022 pare costituire un obiettivo legittimo di politica e del mercato del lavoro che giustifica il diverso trattamento riservato a coloro i quali accedono al trattamento pensionistico prima o dopo il gennaio 2022 per quanto attiene alle modalità dell’adeguamento annuale dell’importo.
4. Conclusioni
Il problema del sistema pensionistico, nei paesi avanzati, è tra i più complessi per diversi motivi. In primo luogo, il continuo crescere della situazione di benessere sino agli anni ’90, dovuta al periodo di pace in Europa, ha portato i vari Stati europei alla concessione di trattamenti via via più consistenti che si sono rivelati insostenibili all’avvento dei primi segni di crisi dei sistemi economici e finanziari del nuovo secolo. In secondo luogo, per tralasciare molti altri, la crisi delle nascite e l’aumento del periodo di vita ha evidenziato la progressiva insostenibilità del sistema come congegnato negli anni precedenti (per una complessiva analisi v. TRIDICO, Il lavoro di oggi la pensione di domani. Perché il futuro del Paese passa dall’Inps, ed. Solferino, 2013).
Intuibile come gli aggiustamenti operati nel sistema pensionistico austriaco, siano stati sì, correttamente ritenuti discriminatori sotto il profilo formale ma, venendo alla sostanza, ovvero alle modalità concrete degli interventi effettuati, giustificati, ai sensi dell’art. 6 della direttiva 2000/78.
Il problema della sostenibilità del sistema economico nel suo complesso, infatti, costituisce uno dei pilastri utilizzati dalle Alte Corti per giustificare provvedimenti che, pur incidendo anche in diritti acquisiti, che una volta si sarebbero ritenuti intoccabili, ferma restando la valutazione sulla proporzionalità dell’intervento peggiorativo operato e dell’interesse dell’intera società alla sopravvivenza economica.
Allo stesso modo la nostra Corte costituzionale è intervenuta più volte, sia in tema di diritti pensionistici (in generale si veda, MONTICELLI, Il complesso dibattito in materia di diritti previdenziali e vincoli di bilancio: un commento alla sentenza n. 70/2015, rivista AIC, 2013; FIERRO, NEVOLA, DIACO, La tutela dei diritti e i vincoli finanziari, Quaderno di giurisprudenza costituzionale, maggio 2013, su cortecostituzionale.it), ma non solo.
Si pensi infatti alla riforma del trattamento di fine servizio, che ha visto, nel 2000 la previsione della retribuzione netta, ex DPCM 20.12.1999, per tutti i pubblici dipendenti assunti dopo il 1999 in occasione del passaggio dal TFS al TFR, una vera e propria decurtazione retributiva che avrebbe dovuto essere compensata con accorgimenti demandati alla contrattazione collettiva, dei quali si sapeva dell’improbabilità di attuazione e che è stata fatta salva da Corte costituzionale 313/2018 con l’affermazione che “la sufficienza e la proporzionalità della retribuzione devono essere valutate avendo riguardo al trattamento complessivo e non a una singola sua componente” o, come in altri settori, la sentenza 194/2018 che ha ritenuto la non fondatezza della differenza di stabilità del posto di lavoro stabilita dall’art. 3 e 4 del d.lgs. 23/2015, escludendo la disparità di trattamento tra i lavoratori assunti primo o dopo il 6 marzo 2015 in merito alla reintegrazione a seguito di licenziamento illegittimo, sulla base del principio del “fluire del tempo”, concetto più volte usato, del resto, proprio per giustificare trattamenti diversi nel caso di successione di norme meno favorevoli (ex plurimis, in materia pensionistica, sentenze n. 92 del 2021, n. 104 del 2018, n. 53 del 2017, n. 254 del 2014 e v. NANNIPIERI, L’indennità integrativa speciale sulle pensioni di reversibilità tra legislatore, giudice delle pensioni e Corte costituzionale, Rivista AIC, 2/2011).
L’aspetto rilevante, semmai, è la possibilità di un adeguato controllo giurisdizionale sull’attività di tutela del bene pubblico operato dagli Stati, in modo di consentire la verifica della adeguatezza degli interventi operati, nell’ambito di un corretto bilanciamento tra le necessità e i principi fondamentali stabiliti dai trattati internazionali e dalle Alte Corti.
Sergio Galleano, avvocato in Milano e Roma
Visualizza il documento: C. giust., sez. VIIª, 20 aprile 2023, causa C-52/22
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