La Corte costituzionale ritorna sugli automatismi punitivi: nuove prospettive per la giustizia disciplinare
29 Maggio 2024|La Corte costituzionale, con la sentenza n. 51 del 2024, depositata il 28 marzo 2024, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 12, comma 5, del decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109, nella parte in cui prevede l’automatica rimozione dalla magistratura in caso di condanna del magistrato a una pena detentiva non sospesa. La norma stabiliva la rimozione automatica del magistrato che sia stato condannato a pena detentiva per delitto non colposo non inferiore a un anno la cui esecuzione non sia stata sospesa, ai sensi degli artt. 163 e 164 Codice penale, o per la quale sia intervenuto provvedimento di revoca della sospensione ai sensi dell’art. 168 dello stesso codice.
Nel caso in questione, un magistrato era stato condannato con sentenza definitiva alla pena non sospesa di due anni e quattro mesi di reclusione per aver apposto, con il consenso della presidente del collegio di cui faceva parte, la firma apocrifa della stessa presidente su tre provvedimenti giurisdizionali. Il Consiglio Superiore della Magistratura aveva quindi inflitto al magistrato la sanzione disciplinare della rimozione in applicazione dell’art. 12, comma 5, del decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109. L’interessato aveva successivamente presentato ricorso per cassazione contro tale provvedimento.
Successivamente, la Corte di cassazione a sezioni unite, con l’ordinanza n. 26693 del 18 settembre 2023 (iscritta al n. 143 del registro ordinanze e pubblicata in G.U. n. 45, prima Serie Speciale, del 8 novembre del 2023), ha sollevato una questione di legittimità costituzionale in relazione alla disposizione in commento, con riferimento agli artt. 3, 97, 105 e 117, comma 1, Cost. (quest’ultimo in relazione all’art. 8 Cedu).
Si tratta di una questione di costituzionalità di carattere innovativo perché, come affermato dalla stessa Corte, finora non si era mai posta la questione sulla «legittimità costituzionale di una disposizione che preveda, come quella ora all’esame, un vincolo alla discrezionalità della Sezione disciplinare del CSM nella scelta della sanzione applicabile a un magistrato che abbia subito una condanna in sede penale».
Con specifico riferimento a questo punto, le censure riguardano tre diversi profili.
In primo luogo, si è avanzato un dubbio sulla compatibilità costituzionale dell’art. 12, comma 5, in relazione all’art. 117, comma 1, Cost. e all’art. 8 Cedu, nella misura in cui l’automatismo punitivo si pone in frizione con il principio di proporzionalità della sanzione. A tal riguardo, si osservava che la norma non riconosce all’Organo di governo autonomo la possibilità di una graduazione della sanzione da applicare in rapporto al caso concreto, in modo tale da assicurare la proporzionalità della sanzione in relazione allo scopo perseguito (Cass., sez. un., Ord. n. 143 del 2023, cit., p.11).
Secondariamente, il giudice rimettente ha posto una questione sulla compatibilità della disposizione censurata con gli artt. 3 e 105 Cost., nella misura in cui la norma impone la revoca del magistrato sulla base della sanzione penale irrogata piuttosto che della gravità della condotta concretamente tenuta dall’agente. In forza di tale norma, il giudice disciplinare è chiamato a pronunciarsi considerando esclusivamente la sanzione penale irrogata, senza la possibilità di valutare il fatto compiuto dal magistrato ai fini disciplinari; come se tale norma fosse una «presunzione assoluta di incompatibilità con il rapporto di servizio in ragione dell’intervenuta condanna penale» (Cass., sez. un., Ord. n. 143 del 2023,cit., p. 12.10).
Infine, la disposizione è stata censurata anche «in rapporto all’interesse dell’Amministrazione di privarsi di un magistrato a fronte di una condotta che, grave dal punto di vista della reazione punitiva statuale, potrebbe non esserlo se valutata in termini di offensività del fatto, con riferimento sia alla lesione dell’interesse specifico tutelato dall’illecito disciplinare, sia alla compromissione dell’immagine del magistrato e del prestigio di cui deve godere nell’esercizio dell’attività giurisdizionale». L’automatismo descritto dalla disposizione censurata si tradurrebbe allora in una violazione dell’art. 97 Cost., poiché realizzerebbe «una eterogenesi dei fini cui la disposizione costituzionale è preordinata» (Cass., sez. un., Ord. n. 143 del 2023 del 18 settembre 2023, in G.U. n. 45 del 8 novembre del 2023, p. 12.12).
La Corte Costituzionale ha ritenuto fondata la questione di costituzionalità con riferimento all’art. 3 Cost., ritenendo assorbite le altre due questioni. Secondo la Consulta, la norma non assicura adeguatamente la proporzionalità della sanzione in relazione alla concreta gravità dell’illecito nella parte in cui prevede la rimozione automatica del magistrato che sia stato condannato a pena detentiva per delitto non colposo non inferiore a un anno la cui esecuzione non sia stata sospesa.
Pertanto, ne ha dichiarato l’illegittimità costituzionale limitatamente alle parole «o che incorre in una condanna a pena detentiva per delitto non colposo non inferiore a un anno la cui esecuzione non sia stata sospesa, ai sensi degli articoli 163 e 164 del Codice penale o per la quale sia intervenuto provvedimento di revoca della sospensione ai sensi dell’articolo 168 dello stesso Codice».
Le argomentazioni della Consulta si fondano essenzialmente su due principi di matrice giurisprudenziale: la proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità della condotta (Ex multis, C. Cost. n. 112 del 2019) e l’autonomia della valutazione in sede disciplinare rispetto a quella del giudice penale (Ex multis, C. Cost. n. 112 del 2014).
Quanto alla proporzionalità della sanzione disciplinare, l’accento si pone sulla necessità di garantire una valutazione individualizzata della condotta tenuta dal dipendente.
Si è osservato infatti che, nonostante l’entità della pena inflitta al reo sia un indice della gravità del comportamento, la sanzione disciplinare non può essere parametrata esclusivamente in ragione di questa; altrimenti, la valutazione disciplinare si incentrerebbe esclusivamente sull’entità della pena, piuttosto che sulla gravità del comportamento del dipendente.
Un simile automatismo punitivo non sarebbe manifestamente irragionevole nel caso in cui tra la fattispecie penale e quella disciplinare vi sia “un certo grado di omogeneità” del fatto tipico: la sovrapponibilità delle condotte giuridicamente rilevanti garantisce una valutazione individualizzata della condotta in sede penale, che poi potrebbe essere mutuata in sede disciplinare.
Il caso sottoposto al vaglio della Corte, però, riguarda due fattispecie eterogenee: l’automatismo di cui all’art. 12, comma 5, è ancorato alla pena irrogata in sede penale, piuttosto che alla condotta del reo.
Di conseguenza, per la Consulta diviene impossibile valutare se vi sia un “certo grado di omogeneità” tra le fattispecie considerate che possa giustificare l’esistenza di tale automatismo sanzionatorio (Cfr. C. Cost. n. 170 del 2015).
Per meglio dire, richiamando le parole della Corte: «affinché una siffatta sanzione fissa – in quanto tale “indiziata” di illegittimità costituzionale (da ultimo, sentenza n. 195 del 2023, punto 6.1. del Considerato in diritto) – possa superare indenne lo scrutinio da parte di questa Corte, occorrerebbe infatti dimostrare che la sanzione della rimozione – la più grave tra quelle previste nel sistema degli illeciti disciplinari dei magistrati – risulti proporzionata rispetto all’intera gamma dei comportamenti tipizzati».
Sulla valutazione in concreto della gravità disciplinare, si veda Cass. del 4 aprile 2024, n. 8956, in Labor, 16 aprile 2024, con nota di SERRA, Sulla proporzionalità della sanzione disciplinare espulsiva rispetto all’illecito disciplinare contestato; Cass. 28 settembre 2023, n. 27525, in Labor, 25 marzo 2024, con nota di AIELLO, Il principio di proporzionalità della sanzione a tutela del lavoratore licenziato per illecito disciplinare.
L’automatismo appena descritto, inoltre, produce effetti anche sotto un diverso profilo: preclude in sede disciplinare una valutazione del comportamento concretamente tenuto dal dipendente. Il CSM, infatti, risulta tenuto ad irrogare la sanzione della rimozione stabilita dalla norma in esame o, all’opposto, escludere l’illecito disciplinare quando ritenga il fatto «di scarsa rilevanza», ai sensi dell’art. 3-bis del d.lgs. n. 109 del 2006.
Si tratta di un’alternativa netta che, secondo la Consulta, risulta irragionevole poiché non consente al CSM di modulare il trattamento disciplinare in base alla condotta del magistrato. Ne consegue, dunque, che la determinazione dell’esistenza e dell’entità della responsabilità disciplinare è interamente vincolata dalla precedente decisione del giudice penale, senza un’adeguata considerazione agli specifici interessi tutelati dalla responsabilità disciplinare. (Cfr., ex multis, Cass., 27 giugno 2023 n. 18372, in Labor, 26 settembre 2023, con nota di TONELLI, La Cassazione sul giudizio di proporzionalità del licenziamento di dipendente pubblico).
Alla luce della sopra illustrata dichiarazione di incostituzionalità, e del venir meno della norma in esame, si avrà «la riespansione della disciplina generale applicabile all’illecito disciplinare di cui all’art. 4, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 109 del 2006: e dunque restituirà alla Sezione disciplinare la possibilità di applicare secondo il proprio discrezionale apprezzamento – una tra le sanzioni previste dal successivo art. 5».
Antonino Giuseppe Arnò, dottorando di ricerca nell’Università degli Studi Mediterranea di Reggio Calabria
Visualizza i documenti: Cass., ordinanza interlocutoria 18 settembre 2023, n. 26693 – Reg. ord. n. 143; C. cost., 28 marzo 2024, n. 51
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