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Insussistenza del fatto materiale contestato “direttamente dimostrata in giudizio”: diverso riparto dell’onere probatorio o differente grado di tutela?

3 Maggio 2024|

La Corte d’Appello di Venezia con la sentenza in commento (27 febbraio 2024, n. 109) torna a pronunciarsi sull’interpretazione dell’art. 3 comma 2 D.lgs. 4 marzo 2015 n. 23.

Come noto tale norma prevede che la tutela reintegratoria sia applicabile «esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato».

Sin dai primi commenti, tale disposizione ha suscitato molteplici questioni di carattere interpretativo sia con riferimento al soggetto su cui graverebbe l’onere probatorio previsto dalla norma, sia con riferimento al significato dell’espressione «direttamente dimostrata in giudizio».

La Corte veneziana nella sentenza in commento richiama un proprio precedente orientamento (App. Venezia, 7 ottobre 2021 n. 563) conforme a quello maggioritario della giurisprudenza di merito (Trib. Napoli 27 giugno 2017 n. 5158; App. Roma 9 aprile 2019 n. 877; App. Roma 25 settembre 2023, n. 3225) e statuisce che «anche nel regime di tutele crescenti l’onere della prova del fatto materiale addebitato al lavoratore incombe sempre sul datore di lavoro poiché l’art. 5 legge 604/66 non è stato né direttamente né indirettamente abrogato dall’art. 3 cit., tuttavia» osserva la Corte «se il datore di lavoro fallisce l’onere di provare il fatto contestato, di regola, trova applicazione la tutela indennitaria a meno che il lavoratore “fornisca direttamente in giudizio la prova della insussistenza del fatto contestato”».

Ferma, quindi, la regola dell’art. 5 L. 15 luglio 1966, n. 604 secondo cui: «l’onere della prova della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento spetta al datore di lavoro» che deve, comunque, dimostrare la legittimità del licenziamento, il lavoratore che voglia ottenere la reintegrazione dovrà «premunirsi di offrire elementi di prova che dimostrano l’insussistenza del fatto addebitato» (App. Roma 9 aprile 2019 n. 877 cit.; Trib. Napoli 27 giugno 2017 n. 5158).

Ciò che il legislatore del 2015 ha introdotto non è, quindi, un diverso riparto dell’onere probatorio ma un differente grado di tutela.

Continua, infatti, a gravare sul datore di lavoro l’onere di dimostrare la sussistenza delle condizioni di fatto e di diritto poste alla base del licenziamento vale a dire delle condizioni che estinguono o impediscono la prosecuzione del rapporto di lavoro. Grava, invece, sul lavoratore l’onere di provare che ricorrono i fatti costitutivi del diritto alla reintegrazione e, quindi, l’insussistenza del fatto contestato.

L’interpretazione dell’art. 3 comma 2 D.lgs. 23/2015 fornita dall’orientamento maggioritario della giurisprudenza di merito, dunque, altro non è che un’applicazione della regola generale dell’art. 2697 1° comma c.c. secondo cui «chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento».

Si segnala, per completezza, l’esistenza di un diverso orientamento, al momento minoritario, del Tribunale di Milano (Trib. Milano, 28 giugno 2017, n. 1882) secondo cui «poiché la norma non attribuisce ad una parte piuttosto che all’altra il relativo onere probatorio, si ritiene sufficiente che il Giudice valutati gli atti e i documenti di causa prodotti da entrambe le parti, possa ritenere che il fatto materiale sia insussistente». Tale orientamento, tuttavia, sembra svuotare di significato il disposto – seppur criticabile – della norma oggetto dalla sentenza in esame.

Quanto, invece, all’interpretazione dell’espressione «direttamente dimostrata in giudizio», anche su questo punto, la Corte d’Appello di Venezia, con la sentenza in commento, ha ribadito il proprio precedente orientamento (App. Venezia, 7 ottobre 2021 n. 563) affermando che «al fine di evitare una interpretazione irragionevole e incostituzionale» tale disposizione non deve essere interpretata nel senso che deve ritenersi preclusa al lavoratore la prova presuntiva o indiretta ma «come ipotesi in cui in giudizio emerga in ragione delle allegazioni e prove offerte dal lavoratore (anche per mancata contestazione del datore di lavoro), che il fatto contestato sia “insussistente”».

D’altra parte, come precisato dalla stessa Corte d’Appello di Venezia, interpretare l’avverbio “direttamente” nel senso di una necessità di prova diretta della sussistenza del fatto contestato comporterebbe dei profili di illegittimità costituzionale in relazione agli artt. 24 e 3 della Cost. Ciò, infatti, equivarrebbe ad ammettere che il datore di lavoro è legittimato a fornire qualsiasi genere di prova per giustificare il recesso mentre al lavoratore sarebbe precluso ricorrere alle presunzioni per poter dimostrare l’insussistenza del fatto a lui addebitato.

Da ciò discende che non si possa che ritenere legittimo il ricorso da parte del lavoratore a presunzioni come pure alla prova di fatti positivi di segno contrario. È infatti principio consolidato della giurisprudenza anche di legittimità che l’onere della prova gravante su chi agisce o resiste in giudizio non subisce deroghe nemmeno quando abbia ad oggetto fatti negativi e che, tuttavia, non essendo possibile la materiale dimostrazione di un fatto non avvenuto, la relativa prova debba essere data mediante dimostrazione di uno specifico fatto positivo contrario od anche mediante presunzioni dalle quali possa desumersi il fatto negativo.

In plurime occasioni, infatti, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che «l’onere probatorio gravante, a norma dell’art. 2697 c.c., su chi intende far valere in giudizio un diritto, ovvero su chi eccepisce la modifica o l’estinzione del diritto da altri vantato, non subisce deroga neanche quando abbia ad oggetto “fatti negativi”, in quanto la negatività dei fatti oggetto della prova non esclude né inverte il relativo onere, tanto più se l’applicazione di tale regola dia luogo ad un risultato coerente con quello derivante dal principio della riferibilità o vicinanza o disponibilità dei mezzi di prova, riconducibile all’art. 24 Cost. e al divieto di interpretare la legge in modo da rendere impossibile o troppo difficile l’esercizio dell’azione in giudizio. Tuttavia, non essendo possibile la materiale dimostrazione di un fatto non avvenuto, la relativa prova può essere data mediante dimostrazione di uno specifico fatto positivo contrario, o anche mediante presunzioni dalle quali possa desumersi il fatto negativo» (da ultimo Cass. 1° settembre 2023, n. 25603).

Nel caso della sentenza in esame, poi, la Corte d’Appello ha ritenuto che «la mancata specificazione delle circostanze di tempo, luogo e modalità in cui il lavoratore avrebbe realizzato il fatto addebitato» non avrebbe posto il lavoratore «nella condizione prevista dal legislatore per poter accedere alla tutela reintegratoria poiché non gli ha consentito di provare e allegare direttamente in giudizio l’insussistenza del fatto contestato, ritenuto che nella contestazione non sono delineati i contorni della condotta addebitati sufficienti a farne apprezzare concretamente l’asserita illiceità».

In altre parole, la Corte d’Appello veneziana ha ritenuto che la genericità della contestazione sia equiparabile alla omessa contestazione con conseguente diritto del lavoratore alla tutela reintegratoria. La Corte d’Appello giunge a tale conclusione anche alla luce dei più recenti arresti della giurisprudenza di legittimità laddove è stato ritenuto insussistente il fatto materiale contestato al lavoratore se «privo della connotazione di illiceità, offensività o antigiuridicità necessaria da renderne apprezzabile la rilevanza disciplinare» (Cass. 2 novembre 2023 n. 30469).

Se da un lato, quindi, la Corte veneziana sembra attenuare l’onere probatorio gravante sul lavoratore che chieda la tutela reintegratoria in caso di contestazione generica e, quindi, di impossibilità del lavoratore di comprendere l’antigiuridicità della sua condotta, è pur vero che alla luce dell’orientamento confermato dalla sentenza in commento, le probabilità del lavoratore, cui si applichino le tutele previste dal D.lgs. 23/2015, di ottenere la reintegrazione sono assai scarse. Il lavoratore, infatti, dovrebbe assolvere gravosi oneri probatori sia nel caso in cui lo stesso invochi la nullità del licenziamento determinato da motivo illecito, sia nel caso in cui agisca per ottenere la reintegra nel posto di lavoro stante l’insussistenza dell’addebito.

Elisa Lamari, avvocato in Milano

Visualizza il documento: App. Venezia, 27 febbraio 2024, n. 109

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