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By Rivista Labor – Pacini Giuridica · 11 May 2024

Aggiornamenti, Licenziamenti

Sulla nullità della conciliazione fuori sede (sindacale): il formalismo supera anche l’effettività dell’assistenza

Da quanto è dato comprendere dalla narrazione tratteggiata nel corpo della pronuncia che si annota, Cass. (ord.) 15 aprile 2024, n. 10065, nell’ambito di una procedura di licenziamento collettivo, l’azienda e le OO.SS. (o la O.S.?) raggiungevano un accordo per la conservazione dei livelli occupazionali che prevedeva un arretramento retributivo del 20%, da perseguire attraverso un demansionamento, per i lavoratori il cui esodo era stato scongiurato.

Come pressoché sempre avviene in questi casi l’accordo collettivo prevedeva la necessita di formalizzare in un successivo accordo individuale, ancillare al primo (e del resto giuridicamente essenziale), la convenzione di demansionamento ai sensi dell’art. 2103 co. VI c.c. a detta del quale: “Nelle sedi di cui all’articolo 2113, co IV, o avanti alle commissioni di certificazione, possono essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni, della categoria legale e del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, nell’ interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita. Il lavoratore può farsi assistere da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato o da un avvocato o da un consulente del lavoro” (sugli accordi disciplinati al comma VI, si veda GIAMPA’, Considerazioni sull’accordo di modifica delle mansioni, in ADL2024, I, 54 e ss.).

Gli accordi individuali, formalizzati nell’ambito di un verbale di conciliazione sindacale, seguivano quello collettivo e venivano stipulati presso la stessa sede aziendale nella quale, verosimilmente, si era tenuto il confronto sindacale tipizzato dalla procedura dettata dall’art. 4, L. 223/1991: sulla localizzazione topografica della stipula della conciliazione impugnata in giudizio, si appuntano gli strali della pronuncia de qua.

Com’è noto, l’art. 2113 c.c. tratteggia un regime di indisponibilità relativa dei diritti quesiti, ovvero entrati nel patrimonio del lavoratore, il quale può abdicare ad essi attraverso un negozio unilaterale di rinuncia o un più ampio accordo transattivo (art. 1965 c.c.) solo in presenza di adeguate garanzie costituite dall’ intervento di organi pubblici qualificati, operanti in sedi c.dd. protette, ovvero: la sede giudiziale (artt. 185 e 420 c.p.c.), le commissioni di conciliazione presso l’Ispettorato Territoriale del Lavoro (già D.P.L.) (art. 410 e 411, co. 1 e 2 c.p.c.), le sedi sindacali (art. 411, co. 3, c.p.c.), oltre ai collegi di conciliazione e arbitrato (art.412 ter e quater c.p.c.).

Ebbene, secondo la pronuncia qui annotata, le “sedi”, ovvero i luoghi selezionati dal legislatore nel co. VI dell’art. 2103 c.c. hanno carattere tassativo e non ammettono, pertanto, equipollenti: “sia perché direttamente collegati all’organo deputato alla conciliazione e sia in ragione della finalità di (assicurare) lavoratore un ambiente neutro, estraneo al all’ influenza della controparte datoriale”.

Si legge nella motivazione che l’accordo conciliativo tra le parti in causa era stato concluso ai sensi degli “artt. 410 e 411 c.p.c. e 2113, 4° comma, cod. civ.” (come espressamente riportato nell’ intestazione del verbale) e recava la precisazione che lo stesso è da “ratificarsi successivamente con le modalità inoppugnabili indicate agli artt. 410 e 411 c.p.c.“. secondo la Corte “è pacifico che tale adempimento non sia mai avvenuto e che l’accordo in esame è stato sottoscritto dal datore di lavoro e dal lavoratore, alla presenza di un rappresentante sindacale, presso i locali della società”.

Secondo la Corte, dunque, nel sistema normativo delineato dal combinato disposto degli artt. 2103 e 2113 c.c., la protezione del lavoratore non è affidata unicamente alla assistenza del rappresentante sindacale, ma anche al luogo in cui la conciliazione avviene: “quali concomitanti accorgimenti necessari al fine di garantire la libera determinazione del lavoratore nella rinuncia a diritti previsti da disposizioni inderogabili e l’assenza di condizionamenti, di qualsiasi genere”.

La conclusione cui perviene la S.C, lascia francamente perplessi e non certamente per il dato fattuale e casistico secondo il quale molte procedure ex L. 223/1991 trovano la loro sintesi in un accordo stipulato direttamente in azienda cui, come detto, fanno seguito complementari – ma in effetti essenziali – accordi individuali che al primo danno “attuazione” e la cui sollecita conclusione si inserisce nella dinamica sindacale ed imprenditoriale della gestione degli esuberi, quanto piuttosto per l’arretramento che esso produce rispetto al dato da sempre ritenuto essenziale nelle conciliazioni sindacali ovvero quello della effettività della tutela prestata al lavoratore nel confronto con la controparte datoriale che pure viene evocato nella narrativa dell’ordinanza.

In questa prospettiva, salvo il non detto o il non emerso (la veridicità del motivo degli esuberi? La presenza di una sola O.S. non troppo insensibile alle esigenze datoriali?), non pare potersi revocare in dubbio che la presenza di un accordo collettivo di conservazione dei posti di lavoro a fronte dei dichiarati esuberi, peraltro con soluzione conforme a legge (art. 2103 c.c.), attesti ex sé l’effettività dell’azione sindacale premessa agli accordi individuali (per giunta la trattativa è solitamente gestita da un “pool” di sindacalisti interni ed esterni all’azienda).

Ciò premesso, che il luogo protetto e neutro da influenze datoriali nel quale opera il sindacato a tutela dei lavoratori (e rilevante per l’ult. co. dell’art. 2113 c.c.) sia identificabile esclusivamente con la sua sede “istituzionale” (la Camera del Lavoro, ad es.) non corrisponde al vero visto che l’intero titolo terzo dello statuto (L.n.300/1970) stabilisce i presidi di operatività e supporto per l’azione sindacale in azienda, riconoscendo peraltro il diritto permanente o contingente delle rappresentanze sindacali ad usufruire di un locale idoneo.

Dunque c’è da chiedersi cosa ne sarebbe stato della conciliazione individuale di cui si è occupata l’ordinanza in commento se fosse stata stipulata nell’idoneo locale comune all’interno della unità produttiva o nelle immediate vicinanze di essa destinato alle RSA / RSU dall’art. 27 dello Statuto nelle unità produttive con più di 200 dipendenti o, in quelle con numero inferiore di dipendenti, nel locale idoneo per le riunioni del quale le rappresentanze sindacali aziendali hanno diritto di usufruire, sempre per la norma de qua.

Il locale “idoneo” è territorio franco dalle influenze datoriali o no? (se la risposta è negativa allora deve ritenersi dubbia l’effettività dell’azione sindacale in azienda).

Dopo di che, come detto, ciò che appare rilevare ai fini della conformità al “tipo” (art. 2113 ult.co. c.c.) della conciliazione sindacale è l’effettività dell’assistenza offerta dal sindacato al lavoratore rinunciante ovvero la corretta trasmissione delle informazioni atte a rendere consapevole il dipendente della consistenza giuridica ed economica dei diritti cui sta rinunciando, delle alternative prospettabili, dello scopo delle rinunce indipendentemente dalla sede “fisica” in cui è stata stipulata ed in questa prospettiva, in specie nelle conciliazioni individuali “pure” ovvero estranee ad una procedura ex L. 223/1991, non v’è dubbio che la stipula in sede aziendale possa costituire indizio della non effettività della tutela che, unito ad altre circostanze, sindacalista di altra categoria collettiva, predisposizione del verbale da parte datoriale, mancato preventivo confronto tra sindacalista e lavoratore, inesistenza di una effettiva res litigiosa (cfr. Cass. 22 maggio 2008, n. 13217, in MGL, 2009, 77, con nota di BATTISTA, La conciliazione sindacale «valida» espressione di solidarietà e certezza), corrispettivo delle rinunce irrisorio o simbolico o comunque evidente sproporzione tra diritti rinunciati e corrispettivo della rinuncia (anche se per l’art. 1970 c.c., la transazione non può essere rescissa per causa di lesione visto che la considerazione dei reciproci sacrifici e vantaggi è rimessa all’autonomia negoziale delle parti, come ricordato da Cass. 4 gennaio 2023 n. 2119 e da Cass. 1° aprile 2019, n. 9006), ecc., può condurre alla nullità dell’accordo abdicativo (mi permetto di rinviare alla mia nota di commento a Trib. Bergamo, 24 gennaio 2024, n. 54: La conciliazione sindacale troppo “conciliante” (per gli interessi del datore di lavoro) è nulla (se difetta la res litigiosa) e comunque invalida (se difetta una reale l’assistenza sindacale specie se all’incontro è presente il solo conciliatore). di prossima pubblicazione su questa rivista. Si veda anche DUI, Conciliazioni sindacali, natura, effetti e regime di impugnazione. Rassegna di giurisprudenza” in LDE, 2021, fasc. n. 3).

Peraltro, in motivazione, la Corte ha ritenuto inconferente il proprio recentissimo precedente, Cass. 18 gennaio 2024, n. 1975 secondo il quale la sottoscrizione della conciliazione presso una sede sindacale non è un requisito formale, bensì funzionale ad assicurare al lavoratore la consapevolezza dell’atto dispositivo che sta per compiere e, quindi, ad assicurare che la conciliazione corrisponda ad una volontà non coartata, quindi genuina, del lavoratore: “Pertanto, se tale consapevolezza risulti comunque acquisita, ad esempio attraverso le esaurienti spiegazioni date dal conciliatore sindacale incaricato anche dal lavoratore, lo scopo voluto dal legislatore e dalle parti collettive deve dirsi raggiunto. In tal caso la stipula del verbale di conciliazione in una sede diversa da quella sindacale non produce alcun effetto invalidante sulla transazione” (nel caso di specie il verbale di conciliazione era stato stipulato in uno studio dentistico).

L’inconferenza secondo l’ordinanza che si annota risiederebbe nella circostanza che, in quel caso, si trattasse di conciliazione ex art. 412 ter ma il riferimento non appare decisivo visto che l’ult. co. dell’art. 2113 c.c., cui rinvia il co. VI dell’art. 2103 c.c. (che allude appunto alle sedi di cui all’articolo 2113, co IV), riconosce alle conciliazioni intervenute “ai sensi degli articoli 185, 410, 411, 412 ter e 412 quater c.p.c.” i medesimi effetti affrancanti del dipendente dal metus verso il datore nella stipula dei negozi rinunciativi.

Secondo altra pronuncia, il locus della conciliazione può rilevare sul piano del riparto degli oneri probatori atteso che, in quel caso, la prova della piena consapevolezza dell’atto dispositivo può ritenersi in re ipsa o desumersi in via presuntiva (Cass. 18 agosto 2017, n. 20201): “Pertanto graverà sul lavoratore l’onere di provare che, ciononostante, egli non ha avuto effettiva assistenza sindacale. Se invece la conciliazione è stata conclusa in una sede diversa, allora l’onere della prova grava sul datore di lavoro, il quale deve dimostrare che, nonostante la sede non “protetta”, il lavoratore, grazie all’effettiva assistenza sindacale, ha comunque avuto piena consapevolezza delle dichiarazioni negoziali sottoscritte”.

In questo contesto, merita un cenno Cass. 5 settembre 2023, n. 25796 (in Labor, www.rivistalabor.it, 16 aprile 2024, con nota di AVANZI, “La conciliazione in “sede sindacale” e le previsioni della contrattazione collettiva ex art. 412-ter c.p.c. L’enigma è risolto?”) che ha ritenuto impugnabile un accordo sindacale intervento presso la Prefettura perché non riconducibile all’ipotesi di cui all’art. 412-ter c.p.c., nella prospettiva, però, del difetto di effettività dell’assistenza sindacale e dunque in chiave sostanzialistica: “non trattandosi, in ogni caso, di conciliazione giudiziale o davanti alle Commissioni di conciliazione o in sede arbitrale; di conseguenza, nel merito, la non riconducibilità dell’accordo in questione a una delle fattispecie previste dall’ult. comma dell’art. 2113 c.c., compresa quella di cui all’art. 412-ter c.p.c., deve essere letta come valutazione del difetto di effettiva assistenza sindacale (assistenza che, in effetti, non emerge specificamente dagli atti di causa), desumibile anche dalla sede non prettamente sindacale in cui era stato raggiunto l’accordo e dalla mancata previsione di modalità contrattuali collettive cui parametrare tale valutazione”.

Nel caso in questione, di conseguenza, la sede non prettamente sindacale ha costituito mero indizio di una assistenza non effettiva che del resto, sempre citando la sentenza, non emergeva specificamente degli atti di causa.

Da ultimo, visto che habent sua sidera lites (per dirla con Calamandrei, Elogio dei giudici scritto da un avvocato, I ed. 1935 poi Milano, 2008, ristampa anastatica 1959, 3), per un caso nel quale il lavoratore eccepiva la nullità del verbale di conciliazione sindacale perché stipulato in luogo diverso dalla sede di lavoro (dunque situazione opposta a quella esaminata dall’ordinanza in commento), la Cassazione definì: “Certamente irrilevante è il fatto che la conciliazione si sia conclusa in luogo (provincia) diverso da quello nel quale il lavoratore aveva espletato la propria attività lavorativa giacché non può sul piano logico ritenersi che tale circostanza abbia in qualche modo influito sulle concrete possibilità del lavoratore di determinarsi e di valutare gli estremi e la convenienza della conciliazione, tanto più che non è dedotto che i termini della controversia fossero legati a fattori locali i quali, pertanto, dovessero essere oggetto di particolare e diretta conoscenza per coloro che prestavano assistenza all’accordo”.

Mentre si espandono le sedi “deflattive” del contenzioso giudiziario giuslavoristico abilitando anche per le controversie di cui all’art. 409 c.p.c. la negoziazione assistita con l’intervento dei soli legali (D. Lgs. n. 149/2022), mala tempora currunt per le conciliazioni sindacali sempre più indagate in senso restrittivo – a questo punto anche sotto il profilo topografico – nella (giusta, ma talvolta mal intesa) prospettiva di garantire il lavoratore nel momento in cui rinuncia a diritti acquisiti o procede a modifiche peggiorative dell’assetto negoziale in essere.

Michele Palla, avvocato in Pisa

Visualizza il documento: Cass., ordinanza 15 aprile 2024, n. 10065

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