Aggiornamenti, Contratto di lavoro
Profili ricostruttivi in tema di responsabilità civile del datore di lavoro: tra risarcimento del danno, ambiente di lavoro stressogeno e responsabilità oggettiva
La ricostruzione della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, nella pronuncia in analisi (ordinanza, 21 febbraio 2024, n. 4664) ha il pregio di confermare il principio di diritto per cui la nozione di mobbing – come quella di straining – è una nozione di tipo medico-legale, che non ha autonoma rilevanza ai fini giuridici e serve soltanto per identificare comportamenti che si pongono in contrasto con l’art. 2087 c.c. e con la normativa in materia di tutela della salute negli ambienti di lavoro (Alpa, Il danno biologico e le tecniche di valutazione della persona, in Contratto e impresa, I, 1985, 65 ss.).
Pertanto, la reiterazione, l’intensità del dolo o altre qualificazioni della condotta sono elementi che possono eventualmente incidere sul quantum del risarcimento, ma non sull’an dello stesso, che prescinde dal dolo o dalla colpa datoriale. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva rigettato la domanda di risarcimento da mobbing per l’assenza di comportamenti intenzionalmente vessatori, senza verificare se le condotte datoriali avevano generato un ambiente logorante e stressogeno per il dipendente).
La Suprema Corte, nella ordinanza de qua, delinea, peraltro, in capo al datore di lavoro una posizione di garanzia: il datore è tenuto ad astenersi da iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante l’adozione di condizioni lavorative stressogene, e, a tal fine, il giudice del merito, pur se accerti l’insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare gli episodi in modo da potersi configurare una condotta di mobbing, è tenuto a valutare se, dagli elementi dedotti – per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto – possa presuntivamente risalirsi al fatto ignoto dell’esistenza di questo più tenue danno (Cass. civ., 20 giugno 2018, n. 16256, in Lav. giur., 2018, 918-924, con nota di Rossi, Il risarcimento del danno alla salute del lavoratore prescinde dall’intento persecutorio, in Foro it., 2018, I, 2711, con nota di Perrino; e in Riv. it. dir. lav., 2018, II, 793, con nota di Lamberti).
Con sentenza n. 213 del 2018, la Corte d’appello di Ancona accoglieva l’appello proposto dall’Azienda Sanitaria Regionale Unica delle Marche e, in riforma della sentenza di primo grado, rigettava la domanda di un dirigente medico presso l’Unità Operativa cardiologia (struttura complessa) intesa ad ottenere il risarcimento del danno in conseguenza di comportamenti persecutori vessatori, discriminatori posti in essere ai suoi danni.
Disattesa, preliminarmente, l’eccezione di inammissibilità del gravame, la Corte territoriale riteneva che i comportamenti descritti nell’atto introduttivo del giudizio, attribuiti al primario dell’Unità Operativa di Cardiologia, potessero essere qualificati in termini di condotte mobbizzanti.
Escludeva che l’aver adibito il dipendente. con una certa sistematicità ad attività da svolgere al di fuori del reparto di cardiologia avesse in sé una valenza vessatoria essendo piuttosto le relative determinazioni aziendali ascrivibili a scelte di massimizzazione dell’efficienza del reparto.
Riteneva, inoltre, che l’accertato clima di conflittualità all’interno del reparto smentisse l’esistenza di un intento persecutorio. Riteneva, vieppiù, poco significativi gli sviluppi delle vicende penali scaturite dalle denunce reciproche del e del primario così come alcune frasi pronunciate in occasione di un brindisi augurale da parte del e svalutava altri episodi asseritamente denotanti un intento persecutorio.
Considerava che le patologie psico-somatiche lamentate dal ed acclarate dalla consulenza all’uopo disposta in primo grado non implicassero per se stesse anche la dimostrazione della loro genesi ed anzi evidenziava che, alla luce degli esiti istruttori, si doveva ipotizzare che nel determinismo della malattia psico-somatica la componente soggettiva (eccessiva perturbabilità del ricorrente) avesse avuto un ruolo essenziale rispetto agli sviluppi della vicenda lavorativa ed al concreto atteggiarsi, nello specifico, delle relazioni professionali.
Avverso tale decisione il dipendente ricorreva per Cassazione.
Il ricorrente denunciava, precipuamente, la violazione ed erronea applicazione dei principi costituzionali e normativi in materia di mobbing e di diritti inviolabili della persona nonché violazione degli artt. 2,4 e 32 Cost. e artt. 2103 e 2087 cod. civ.
Il medesimo deduceva che la Corte territoriale avesse errato nel non ritenere, nello specifico, sussistenti tutti i presupposti ritenuti essenziali ed imprescindibili dalla Corte di legittimità ai fini della configurabilità non solo di comportamenti di mobbing ai suoi danni (estromissione dal reparto e trasferimento ad altro presidio ospedaliero, impulso a pretestuose indagini penali), ma soprattutto nell’aver svalutato e relegato in ambito di ordinaria conflittualità lavorativa tra dipendenti l’insostenibile situazione determinatasi all’interno del reparto caratterizzata da diffusi contrasti e da comportamenti adottati ai suoi danni (quali estromissione dal reparto e trasferimento ad altro presidio ospedaliero, impulso a pretestuose indagini penali, contestazioni, dinieghi) e, comunque, per aver escluso la riferibilità all’Azienda datrice di lavoro della responsabilità per tale clima conflittuale generativo di danno.
Censurava, dunque, la sentenza impugnata anche perché si era omesso di considerare come fosse stata la stessa Azienda ad ammettere implicitamente l’insostenibilità della situazione conflittuale tra il ricorrente ed il primario a tal punto da proporre e poi disporre il trasferimento d’ufficio del (e non anche di altri dirigenti medici) ad altro presidio ospedaliero e per non aver ricollegato tale situazione conflittuale ai danni alla salute ad esso ricorrente derivati.
I giudici di legittimità, nella sentenza in commento, hanno evidenziato, peraltro, come la giurisprudenza della Corte di Cassazione si fosse univocamente espressa in punto di onus probandi. In tema di responsabilità del datore di lavoro per violazione delle disposizioni dell’art. 2087 cod. civ., la parte che subisce l’inadempimento non deve dimostrare la colpa dell’altra parte – dato che ai sensi dell’art. 1218 cod. civ. è il debitore-datore di lavoro che deve provare che l’impossibilità della prestazione o la non esatta esecuzione della stessa o comunque il pregiudizio che colpisce la controparte derivano da causa a lui non imputabile.
Tuttavia, è comunque soggetta all’onere di allegare e dimostrare l’esistenza del fatto materiale ed anche le regole di condotta che assume essere state violate, provando che l’asserito debitore ha posto in essere un comportamento contrario o alle clausole contrattuali che disciplinano il rapporto o a norme inderogabili di legge o alle regole generali di correttezza e buona fede o alle misure che, nell’esercizio dell’impresa, debbono essere adottate per tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro (v. ex multis Cass. 11 aprile 2013, n. 8855; Cass. 13 ottobre 2015, n. 20533; Cass. 9 giugno 2017, n. 14468).
Quindi, ai fini della configurabilità della responsabilità del datore di lavoro per la tecnopatia contratta (o per l’infortunio subito) dal dipendente, grava su quest’ultimo l’onere di provare la sussistenza del rapporto di lavoro, della malattia e del nesso causale tra la nocività dell’ambiente di lavoro e l’evento dannoso, mentre spetta al datore di lavoro dimostrare di aver rispettato le norme specificamente stabilite in relazione all’attività svolta nonché di aver adottato tutte le misure che – in considerazione della peculiarità dell’attività e tenuto conto dello stato della tecnica – siano necessarie per tutelare l’integrità del lavoratore, vigilando altresì sulla loro osservanza (per un inquadramento generale e per i riferimenti ulteriori, si rinvia a D. Tambasco, Addio mobbing, arriva lo stress da conflittualità lavorativa: il nuovo orientamento della giurisprudenza di legittimità, in Labor , www.rivistalabor.it, 20 febbraio 2024).
Inoltre, i giudici prendono le mosse, nel loro iter logico – motivazionale da un filone giurisprudenziale (Cass. 19 febbraio 2016, n. 3291) che evidenziava il carattere di “norma di chiusura” del sistema antinfortunistico pacificamente riconosciuta all’art. 2087 cod. civ., nonché all’ammissibilità della interpretazione estensiva della predetta norma alla stregua sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute (art. 32 Cost.), sia dei principi di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 cod. civ.) ai quali deve ispirarsi anche lo svolgimento del rapporto di lavoro; la giurisprudenza di questa Corte ha inteso l’obbligo datoriale di “tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro” nel senso di includere anche l’obbligo della adozione di ogni misura “atipica” diretta alla tutela della salute e sicurezza dei lavoratori, come, ad esempio, le misure di sicurezza da adottare in concreto nella organizzazione tecnico-operativa del lavoro allo scopo di prevenire ogni possibile evento dannoso, ivi comprese le aggressioni conseguenti all’attività criminosa di terzi.
Alla luce di tale cornice di principi, anche costituzionali, la tutela dell’integrità psico-fisica del lavoratore assume massima rilevanza, in ragione di fattori quali l’ineluttabilità, la fatalità, la fattibilità economica e produttiva, nella predisposizione di condizioni ambientali sicure (Bellisario, Il problema della compensatio lucri cum damno, Milano, 2018; Scarchillo, La natura polifunzionale della responsabilità civile: dai punitive damages ai risarcimenti punitivi. Origini, evoluzioni giurisprudenziali e prospettive di diritto comparato, in Contratto e impresa, I, 2018, 289 ss.; Gallo, Compensatio lucri cum damno e benefici collaterali parte prima: la compensatio lucri cum damno e le sue trasformazioni, in Riv. dir. civ., 2018, 851 ss.).
Questo implica anche l’obbligo del datore di lavoro di astenersi da iniziative, scelte o comportamenti che possano ledere, già di per sé, la personalità morale del lavoratore, come l’adozione di condizioni di lavoro stressogene o non rispettose dei principi ergonomici, oltre ovviamente a comportamenti più gravi come mobbing, straining, bum out, molestie, stalking e così via, alcuni anche di possibile rilevanza penale.
A ciò è da aggiungere che la ricordata portata costituzionale della materia trattata ha spinto il diritto vivente, e in alcuni casi quello vigente, ad ammettere che le condotte potenzialmente lesive dei diritti di cui si tratta siano soggette a prove presuntive.
Infatti, la prova presuntiva (o indiziaria) – che esige che il giudice prenda in esame tutti i fatti noti emersi nel corso dell’istruzione, valutandoli tutti insieme e gli uni per mezzo degli altri e quindi esclude che il giudice, avendo a disposizione una pluralità di indizi, li prenda in esame e li valuti singolarmente, per poi giungere alla conclusione che nessuno di essi assurga a dignità di prova (Cass. 9 marzo 2012, n. 3703).
Ciò consente, attraverso la complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, gravità, frustrazione personale e/o professionale, altre circostanze del caso concreto), di poter risalire coerentemente, con un prudente apprezzamento, al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell’art. 115 cod. proc. civ., a quelle nozioni generali derivanti dall’esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove (Domenici, Metodologia valutativa del danno biologico permanente. in SIMLA “Linee guida per la valutazione del danno alla persona in ambito civilistico”, Giuffrè Editore, 2016; Marando, Responsabilità, danno e rivalsa per gli infortuni sul lavoro, Milano, 2003, 10, spec. 501 e 513).
I giudici aderiscono, dunque, al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità in materia di prova del danno da demansionamento (Cass., Sez. Un., 22 febbraio 2010, n. 4063; Cass., Sez. Un., 24 marzo 2006, n. 6572 del 2006; Cass. 19 dicembre 2008, n. 29832; Cass. 26 novembre 2008, n, 28274), oltre a trovare riscontro anche nella giurisprudenza amministrativa in materia di mobbing (Cons. Stato 21 aprile 2010, n. 2272).
Al fine di rintracciare, pertanto, una responsabilità ex art. 2087 cod. civ. in capo al datore di lavoro, quale quella nello specifico dedotta, ancorché con una principale ascrivibilità della stessa ad una ipotesi di mobbing, non è necessaria, la presenza di un “unificante comportamento vessatorio”, ma è sufficiente l’adozione di comportamenti, anche colposi, che possano ledere la personalità morale del lavoratore, come l’adozione di condizioni di lavoro stressogene o non rispettose dei principi ergonomici (In dottrina, tra i primi scritti, Matto, Il Mobbing tra danno alla persona e lesione del patrimonio professionale, in Dir. Lav. ind., 1999, 491; Meucci, Considerazioni sul mobbing, in Lav. prev. Oggi, 1999, 1953 ss.).
Tali principi sono stati, recentemente, confermati da una ulteriore ricostruzione ermeneutica ( vedasi Cass. 7 febbraio 2023, n. 3692), per cui “è illegittimo che il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori (Cass. 19 febbraio 2016, n. 3291), lungo la falsariga della responsabilità colposa del datore di lavoro che indebitamente tolleri l’esistenza di una condizione di lavoro lesiva della salute, cioè nociva, ancora secondo il paradigma di cui all’art. 2087 cod. civ. (Corsalini-De Matteis, Il concorso tra risarcimento e indennizzo dinanzi alle giurisdizioni superiori e riflessi sull’azione di rivalsa dell’INAIL, in Riv. dir. sic. soc., 1/2019, 151 ss.; v. altresì Corsalini, La centralità del lavoratore nel sistema di tutela INAIL, cit., 310 ss.).
È, infatti, comunque configurabile la responsabilità datoriale a fronte di un mero inadempimento – imputabile anche solo per colpa – che si ponga in nesso causale con un danno alla salute del dipendente e ciò secondo le regole generali sugli obblighi risarcitori conseguenti a responsabilità contrattuale (artt. 1218 e 1223 cod. civ.); si resta invece al di fuori della responsabilità ove i pregiudizi derivino dalla qualità intrinsecamente ed inevitabilmente pericolosa o usurante della ordinaria prestazione lavorativa o tutto si riduca a meri disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili”.
La Suprema Corte prende le mosse da un granitico orientamento che ha del resto già ritenuto che le condizioni ordinariamente usuranti dal punto di vista psichico, per effetto della ricorrenza di contatti umani in un contesto organizzativo e gerarchico, per quanto possano eventualmente costituire fondamento per la tutela assicurativa pubblica (d.P.R. n. 1124/1965 e D.Lgs. n. 38/2000, nelle forme della c.d. “costrittività organizzativa”), non sono in sé ragione di responsabilità datoriale, se appunto non si ravvisino gli estremi della colpa comunque insiti nel disposto dell’art. 2087 cod. civ. (Pera, La responsabilità dell’impresa per il danno biologico subito dalla lavoratrice perseguitata dal preposto a proposito del c.d. mobbing), in Riv. It. Dir. Lav., 2000, II, 102 ss.; Monateri – Bona – Oliva, Mobbing. Vessazioni sul lavoro, Milano, 2000; Nunin, Alcune considerazioni in tema di «mobbing» , 2000, n.1; Oliva, «Mobbing»: quale risarcimento?, in Danno resp., 2000, 27 ss.; Tullini, Mobbing e rapporto di lavoro. Una fattispecie emergente di danno alla persona, in Riv. It. Dir. Lav., 2000, I, 251 ss.).
In sostanza, anche in assenza di un intento persecutorio unificante le singole condotte oggetto di esame, ovvero solo caratterizzante una o più di esse, le stesse sarebbero singolarmente e nell’insieme da valutarsi alla luce della violazione dell’art. 2087 cod. civ.: circostanza, quest’ultima, apoditticamente esclusa nella sentenza in ragione della accertata insussistenza di un comportamento programmaticamente e volontariamente vessatorio (Ex multis, tra i commenti più recenti, cfr. Marinelli, Licenziamento per motivo illecito e mobbing, in Lav. giur, 2018, 396; Perrino, In tema di “mobbing” e “straining” nel rapporto di lavoro, risarcimento del danno, accertamento della condotta vessatoria, in Foro it., 2018, I, 2715; De Angelis, Diritto del lavoro e tutela risarcitoria: un fugace sguardo tra passato e presente Relazione al Convegno “Le nuove frontiere del risarcimento del danno”, Roma, 1-2 febbraio 2017, in Arg. dir. lav., 2017, I, 605; Signorini, Ambiente di lavoro e conflitto: il fenomeno dello « straining », in Resp. Civ. e Prev., 2017, 311).
Secondo la Suprema Corte, la nozione di mobbing (come quella di straining), dunque, è una nozione di tipo medicolegale, che non ha autonoma rilevanza ai fini giuridici e serve soltanto per identificare comportamenti che si pongono in contrasto con l’art. 2087 cod. civ. e con la normativa in materia di tutela della salute negli ambienti di lavoro (Cass. 19 febbraio 2016, n. 3291; Cass. 10 dicembre 2019, n. 32257).
Ed, allora, il vizio dedotto, che riguarda, tra l’altro, l’erronea imputazione delle condotte ad un ricercato (ed escluso) intento vessatorio, è certamente censurabile in sede di legittimità, aldilà delle valutazioni di merito non annoverate nella attività nomofilattica riservata alla Suprema Corte.
In relazione alla tutela della personalità morale del lavoratore, al di là della tassonomia e della qualificazione come mobbing e straining, quello che rileva è che il fatto commesso, anche isolatamente, sia un fatto illecito ex art. 2087 cod. civ. da cui sia derivata la violazione di interessi protetti del lavoratore al più elevato livello dell’ordinamento, ovvero la sua integrità psicofisica, la dignità, l’identità personale, la partecipazione alla vita sociale e politica.
La reiterazione, l’intensità del dolo, o altre qualificazioni della condotta sono elementi che possono incidere eventualmente sul quantum del risarcimento ma nessuna offesa ad interessi protetti al massimo livello costituzionale come quelli in discorso può restare senza la minima reazione e protezione rappresentata dal risarcimento del danno, a prescindere dal dolo o dalla colpa datoriale, come è proprio della responsabilità contrattuale in cui è invece il datore che deve dimostrare di aver ottemperato alle prescrizioni di sicurezza.
Si rinvia, in proposito, a Pardolesi – Santoro, Sul nuovo corso della “compensatio”, in Danno resp., 4, 2018, 427 ss.; Franzoni, La compensatio lucri cum damno nel III millennio, in Danno resp., 2019, 5 ss.; Mattarella, Compensatio lucri cum damno e tipicità dei danni punitivi: una prospettiva critica, in Nuova giur. civ., 2019, 583 ss.).
Conclusivamente, la Corte accoglie il ricorso e cassa la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’appello competente.
Dunque, secondo i giudici di legittimità, le varie condotte poste in essere dall’Azienda datrice di lavoro che – a prescindere dalla sussistenza di comportamenti intenzionalmente vessatori nei confronti del ricorrente – ben possono essere state, anche in ragione della reiterazione delle stesse, esorbitanti od incongrue rispetto all’ordinaria gestione del rapporto; in tale prospettiva, sarebbe possibile riconoscere una violazione dell’art. 2087 cod. civ. anche eventualmente sotto il profilo della contribuzione causale alla creazione di un ambiente logorante e determinativo di ansia, come tali causative di pregiudizi per la salute (si richiamano le già citate pronunce di legittimità secondo cui, ai sensi dell’art. 2087 cod. civ., “norma di chiusura” del sistema antinfortunistico e suscettibile di interpretazione estensiva.
Ciò potrebbe avvenire in ragione sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute sia dei principi di correttezza e buona fede cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro, il datore è tenuto ad astenersi da iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante l’adozione di condizioni lavorative “stressogene”.
Dunque, anche se si accerti l’insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare gli episodi in modo da potersi configurare una condotta di “mobbing”; il giudice è tenuto a valutare se, dagli elementi dedotti – per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto – possa presuntivamente risalirsi al fatto ignoto dell’esistenza di questo più tenue danno).
Giuseppe Maria Marsico, dottorando di ricerca in diritto privato e dell’economia e funzionario giuridico-economico-finanziario
Visualizza il documento: Cass., ordinanza 21 febbraio 2024, n. 4664
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