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By Rivista Labor – Pacini Giuridica · 12 May 2024

Aggiornamenti, Contratto di lavoro, Diritto del lavoro comparato, internazionale e dell'Unione europea

La Corte di giustizia sull’utilizzo del velo islamico in ambiente lavorativo nella sentenza della Grande Sezione 28 novembre 2023, C-148/22

1. Il problema del velo islamico femminile

L’affaire dell’utilizzo dei segni di riconoscimento religioso sul luogo di lavoro da parte di coloro che aderiscono ad una religione e tengono in ambienti pubblici comportamenti diversi da quelli seguiti dalla maggioranza dei cittadini in Europa è un argomento che è stato trattato ampiamente nella giurisprudenza nazionale ed europea e ricorre tuttora in diverse occasioni.

Vediamo quindi di fare il punto, chiarendo innanzi tutto brevemente e in generale il contesto e la problematica, prima dell’esame di una sentenza della Corte di giustizia di grande interesse per la soluzione adottata.

La questione è sorta soprattutto con riferimento agli obblighi previsti dalla fede islamica che impongono alle donne un “dress code” di immediato impatto nell’ambiente europeo, scontrandosi con l’evoluzione del principio di parità fra i sessi e il rispetto della dignità umana che si è affermato nelle società occidentali democratiche. Il fenomeno si è amplificato a seguito del radicalismo che ha caratterizzato una parte delle società islamiche nell’ultimo trentennio dal ritorno al potere dell’Imam Khomeini in Iran, acuitosi a seguito dei successivi sviluppi del fondamentalismo islamico (si pensi all’Afghanistan, alle torri gemelle, alla Jihâd islamica, ecc.), che hanno comportato reazioni di rigetto nei confronti dei fenomeni di esternalizzazione imposta da una religione che sino ad allora aveva convissuto pacificamente con il mondo occidentale. Ciò ha comportato problemi nei rapporti sociali che hanno visto disporre il divieto dell’utilizzo del velo islamico in alcuni paesi europei (Austria 2017, Danimarca dal 2018, Bulgaria dal 2016 e in Francia dal 2018).

Minori problemi hanno creato, ad esempio, l’abbigliamento (maschile) dei musulmani, l’utilizzo della Kippah per gli ebrei e del Dastor (turbante) o del Kirpan (pugnale) per i sikh (ma v., comunque, NEGRI, Sikh condannato per porto del kirpan: una discutibile sentenza della cassazione su immigrazione e “valori del mondo occidentale”, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 03.07.17).

Le molte controversie hanno avuto quale oggetto principalmente la discriminazione denunciata da lavoratrici che si vedevano inibire l’utilizzo del velo islamico sul luogo di lavoro. Di tali discriminazioni ha dovuto occuparsi la Corte di giustizia dell’Unione, applicando i principi stabiliti con la nota sentenza Feryn del luglio 2008 (C-54/07, su cui: SAVINO, Discriminazione razziale e criteri di selezione del personale, in RIDL, 2009, II, 232 e segg.), che censurava comportamenti finalizzati a inibire sin dall’origine l’assunzione di soggetti aventi una determinata origine etnica o razziale, ponendo in capo al datore di lavoro l’onere di dimostrare che non vi è stata disparità di trattamento.

Chiarito tale principio, si sono succedute numerose pronunce che hanno seguito la stessa linea, fondata sull’esistenza di una discriminazione indiretta. Ricordiamo, tra le tante, le sentenze Bougnaoui e Achbita del 2017 (su cui POSO, Religione e pregiudizio. La Corte di Giustizia e la discriminazione per il velo islamico indossato nei luoghi di lavoro tra libertà religiosa dei lavoratori e libertà di impresa, in Labor, 24.03.17 e ivi ulteriori richiami), con le quali la Corte individua le fonti primarie del divieto di discriminazione e precisamente i diritti fondamentali dell’Unione, tenendo presente il richiamo, nel considerando n. 1 della Direttiva 2000/78 e nell’art. 9 della Cedu, sul diritto di ogni persona alla libertà di pensiero, di coscienza e religione nonché la libertà di manifestarlo individualmente o pubblicamente. Più in particolare poi, nella legislazione dell’Unione, la Carta dei diritti fondamentali, all’art. 10, par.1, sancisce il diritto alla libertà di coscienza e di religione negli stessi termini previsti dalla Convenzione europea dei diritti dell’Uomo (conformemente alla previsione di cui all’art. 52, par. 3, della Carta).

Non a caso la CEDU, con diverse sentenze (tra queste, Dahalab c. Svizzera, del 15.01.11, Eweida c. Regno Unito, del 15.01.13, S.A.S c. Francia del 01.07.14: sulle quali Roberto COSIO, Il difficile bilanciamento tra diritti fondamentali e libertà d’impresa, in www.europeanrigths.eu , 31.10.16), ha, a sua volta, cercato di conciliare la libertà di espressione e la tutela dei diritti dei cittadini degli stati membri, filtrandoli tra i principi della parità tra i sessi e il rispetto della dignità umana.

In questo quadro, l’art. 10 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE prevede che: “Ogni individuo ha diritto alla libertà (…) e di religione. Tale diritto include (…) la libertà di manifestare la propria religione o la propria convinzione individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti”.

La norma non pone particolari problemi per quanto attiene la sua diretta applicazione da parte degli Stati membri, posto che questi sono tenuti ad astenersi nel rispetto di tale diritto, in modo sostanzialmente incondizionato (salvo, ad esempio, problemi di ordine pubblico o sanitario).

Il contenzioso sorge, invece, per quanto attiene i rapporti tra privati, laddove il principio rischia di confliggere con la libertà di impresa, nel momento in cui la manifestazione di fede religiosa può porsi in contrasto con l’attività economica, soprattutto commerciale, dell’imprenditore (Roberto COSIO , L’uso del velo islamico nei posti di lavoro. Il difficile bilanciamento tra diritti fondamentali e libertà di impresa, in www.europearigths.eu,31.10.16; POSO, La neutralità (politica, filosofica o) religiosa del datore di lavoro deve, quindi, prevalere sulla libertà dei lavoratori di indossare abiti o simboli evidenti delle proprie convinzioni sui luoghi di lavoro?, in Labor, 23.07.21, con ampi riferimenti,).

Le questioni che si sono poste avevano ad oggetto, appunto, il divieto di indossare il velo, in occasioni di svolgimento del rapporto di lavoro e hanno avuto uno sviluppo frutto di scelte molto bilanciate, che hanno tenuto conto sia del diritto datoriale allo svolgimento dell’attività di impresa che di quello del lavoratore di poter professare liberamente la propria religione. Si è così giunti a contemperare entrambi i diritti, limitando le situazioni nelle quali era legittima la giustificazione datoriale di vietare l’utilizzo del velo, alle ipotesi di oggettive difficoltà dell’impresa nell’impiego di prestatori che ostentavano un simbolo che può intimidire o allontanare gli utenti o i clienti nel corso dell’attività, che presuppone i contatti con il pubblico.

Si è così affermato un diritto cd. “mite” (su cui L. VIOLA, Il velo islamico davanti ai giudici italiani (ed europei), in www.federalismi.it , 20.3.19), che ha avuto un punto arrivo di rilevanza nella sentenza L.F del 13.10.22 (C-344/20: sulla quale v. Roberto COSIO, Il velo islamico nella recente sentenza della Corte di giustizia. Alla ricerca del c.d. diritto mite, in Ius Giuffrè, 28.10.22; GALLEANO, Non costituisce una discriminazione diretta se generale e indiscriminato il divieto di indossare sul luogo di lavoro segni religiosi, filosofici o spirituali, in www.europeanrigths.eu , 15.11.22), che richiama il concetto di “accomodamento ragionevole” da raggiungere tra le esigenze del disabile e quelle dell’impresa (su cui v. ancora GALLEANO, La Corte di giustizia chiamata a decidere sulla prevalenza tra il diritto alla non discriminazione per età e alla tutela della disabilità, sempre in www.europeanrigths.eu , 01.01.24).

Sulla stessa linea anche la giurisprudenza nazionale, della quale qui ci si limita a ricordare la nota sentenza della Corte di appello di Milano 20 maggio 2016, n. 579 (sulla quale TARQUINI, Il velo, il mercato, il corpo delle donne. La giurisprudenza di fronte al divieto di vestizione del velo islamico, in LDE, 1/2018) che riforma la sentenza del Tribunale di Lodi, non costituendo, in quel caso, la hijab (e quindi il capo coperto) un elemento essenziale della prestazione, come richiesta dalla committente.

2. Il caso all’esame della Corte e la decisione

O.P., la lavoratrice interessata, svolgeva mansioni di responsabile di un ufficio presso il comune di Ans (Belgio), funzione che si svolgeva principalmente senza contatto con gli utenti del servizio pubblico.

Nel corso del suo rapporto, il Comune ha adottava un provvedimento che prevedeva l’obbligo di “neutralità esclusiva” sul luogo di lavoro, ovvero un divieto per tutti i dipendenti di indossare, in tale luogo, qualsiasi segno visibile idoneo a rivelare le loro convinzioni personali, in particolare religiose, a prescindere dal fatto che tali dipendenti siano o meno a contatto con il pubblico (già si è visto che la Francia è uno di quei paesi europei che ha preso provvedimenti restrittivi in merito al velo islamico).

La lavoratrice si è quindi rivolta al Tribunale del lavoro denunciando un atteggiamento discriminatorio del Comune.

Il giudice francese, ritenendo una possibile violazione di tale provvedimento con la direttiva 2000/78, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, disponendo il divieto di discriminazioni, anche fondato sulla religione, ha rimesso la questione alla Corte, al fine che ne verificasse la compatibilità con la direttiva.

La questione viene trattata in Grande sezione la quale, ritiene che una norma interna di un ente pubblico che dispone, in maniera generale e indiscriminata per tutto il personale di indossare nell’orario di lavoro in modo visibile qualsiasi segno che riveli, in particolare, convinzioni filosofiche o religiose, può essere giustificata dalla volontà di detta amministrazione di creare un ambiente amministrativo totalmente neutro, a condizione che tale norma risulti idonea, necessaria e proporzionata rispetto a tale contesto e tenuto conto dei diversi diritti e interessi in gioco.

Ciò premesso, in primo luogo, la Corte esclude che si tratti di una discriminazione diretta, poiché la norma in esame può costituire “una differenza di trattamento, indirettamente fondata sulla religione (o sulle convinzioni personali)” qualora sia dimostrato che l’obbligo disposto, pur apparentemente neutro, comporta di fatto uno svantaggio nei confronti delle persone che aderiscono ad una religione (o convinzione personale). Tale differenza di trattamento può però non costituire una discriminazione ove risulti che la sua adozione “è oggettivamente giustificata da una finalità legittima e risulta idonea allo scopo”.

Nella specie, poi, una norma adottata da una pubblica amministrazione in un regolamento di lavoro gode della presunzione che persegua una finalità legittima. In particolare, a ciascuno stato membro e alle sue articolazioni, nell’ambito delle funzioni di competenza, l’ordinamento unionale riconosce una discrezionalità nell’organizzazione dei servizi pubblici, ai fini di garantire la neutralità dei servizi forniti, in considerazione delle specificità del contesto sociale, nei limiti delle finalità perseguite e allo spazio che risulta appropriato e consentito alle esigenze di natura religiosa o di convinzione personale dei suoi dipendenti. Spetta al giudice nazionale valutare l’idoneità e la proporzionalità delle misure adottate nel caso specifico al suo esame.

In secondo luogo, spetta ancora al giudice nazionale verificare se ed in che termini la disposizione scrutinata costituisce una applicazione della finalità perseguita, ovvero se il Comune di Ans miri effettivamente, con il provvedimento in esame, ad una una neutralità effettiva in modo coerente e sistematico nei confronti di tutto il personale.

In particolare, quanto la finalità perseguita è quella di assicurare una “neutralità esclusiva”, lo scopo può essere raggiunto solo laddove non è ammessa alcuna manifestazione visibile di convinzioni religiose o personali, quando i lavoratori sono a contatto con il pubblico o tra loro. Infatti, la possibilità di indossare qualsiasi segno distintivo in tal senso, “anche se di piccole dimensioni”, mette in discussione la misura e dunque la coerenza stessa dell’obiettivo perseguito.

La questione viene quindi rimessa al giudice del rinvio per la valutazione in fatto e l’applicazione dei principi stabiliti.

3. Conclusioni

Come si vede, la Corte, con la sentenza in commento, compie un passo avanti di non poco conto in tema di tutela delle discriminazioni di natura religiosa o di convinzioni personali nel settore pubblico.

Ferma restando l’evoluzione del concetto di diritto mite, cui si è fatto cenno sopra, prende atto della necessità che la libertà di espressione in tema religioso di convinzioni culturali o politiche diverse da quelle della maggioranza della società tengano conto del contesto nel quale vengono in discussione.

Può infatti accadere che talune di queste, in una particolare situazione ambientale, si presentino comunque come offensive o, in ogni caso, in ragione delle estremizzazioni che, in loro nome, da altri e in altri paesi vengono poste in essere, vengano viste come contrarie o offensive rispetto al comune sentire della società e opposte a valori che sono la base di quelli che contraddistinguono la società nella quale vivono. Si pensi solamente, appunto, alla parità di genere che, nei paesi europei (almeno nella prevalenza), costituisce uno dei capisaldi di uno stato democratico.

La tutela della libertà di espressione, così, va ponderata rispetto a situazioni come quella che si è descritta, nella quale il principio del diritto mite rischia di risultare un’espressione teorica che non trova poi riscontro nella realtà dei rapporti e si trasforma in reazioni di timore o, addirittura, di ostracismo da parte della maggioranza o comunque anche solo di una buona parte dei cittadini di quel territorio, con conseguenti problemi di rigetto o di aperta discriminazione da parte di questi.

Lo sforzo interpretativo della Corte, in questo caso, risulta veramente notevole.

Ben lungi dall’assecondare soluzioni di natura sovranista, la soluzione adottata dalla Corte salva i provvedimenti adottati dalle pubbliche istituzioni – ferma restando la valutazione circa la loro idoneità e proporzionalità – ma viene arricchita e completata attraverso l’azzeramento, almeno nelle situazioni di vita pubblica, di ogni comportamento finalizzato a evidenziare ed esibire l’una o l’altra manifestazione religiosa o di convinzione personale che può essere motivo di contrasto con quella in discussione, così eliminando in radice il sorgere di contrasti, di isolamento o di discriminazioni e ponendo tuti su un piano di effettiva parità.

Al di fuori dal contesto dei pubblici uffici, che tutti siamo, prima o poi, costretti a frequentare, nella vita ordinaria e contesto privato ciascuno resterà libero di esternare come meglio crede le sue credenze e convinzioni (sulla stessa sentenza v. anche, per altri aspetti, anche Roberta COSIO, Il divieto del velo islamico nei luoghi pubblici. La sentenza della Grande Sezione, in Ius Giuffré, 19.01.24).

Sergio Galleano, avvocato in Milano e Roma

Visualizza il documento: C. giust., Grande Sezione, 28 novembre 2023, causa C-148/22

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