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By Rivista Labor – Pacini Giuridica · 2 May 2024

Aggiornamenti, Contratto di lavoro

La Cassazione si esprime sulla natura residuale della azione di ingiustificato arricchimento: un’interessante pronuncia

Breve riepilogo dei fatti di causa e della vicenda processuale di merito:

Nel lontano 2007, un lavoratore (non sottoposto a vincolo di subordinazione ex art. 2094 c.c.) che ricopriva la prestigiosa qualifica di “Adjunct Associate Professor” presso il dipartimento di Neurologia del Baylor College of Medicine, conveniva in giudizio l’ente, con il quale aveva iniziato una collaborazione nelle vesti di esperto di informatica medica, a diretto contatto con il Direttore generale dell’istituto medesimo; detta collaborazione era finalizzata alla realizzazione di un sistema di acquisizione ed elaborazione dei flussi informatici aziendali, che in effetti il lavoratore aveva portato a termine ed inviato agli organi apicali dell’azienda.
L’attore, dopo aver svolto per un triennio un’intensa attività professionale (circostanza quest’ultima non contestata da alcuna parte processuale), domandava la condanna dell’AUSL convenuta a titolo di ingiustificato arricchimento (configurazione giuridica che, come vedremo, sarà gravida di conseguenze a livello ermeneutico) e, in via subordinata, al risarcimento del danno a carico del Direttore Generale per aver ingenerato in lui il convincimento che fosse impegnata la volontà della detta azienda.
Il Tribunale di Palermo, territorialmente competente, alla luce di tutti gli accertamenti in fatto svolti e supra brevemente riepilogati accoglieva la domanda di indebito arricchimento; a detta pronuncia l’azienda si è opposta, proponendo ritualmente appello nei termini di legge.
La Corte d’Appello di Palermo, riformando la sentenza del giudice di prime cure, respingeva la domanda originale del lavoratore, optando per l’accoglimento dell’appello.
Conseguentemente, veniva proposto ricorso per Cassazione da parte dell’ex collaboratore, cui l’ASP rispondeva proponendo a sua volta un controricorso. Seguiva scambio di memorie.
La Cassazione si è pertanto espressa sul punto con l’ordinanza n. 7178 di seguito commentata.

Il giudizio di Cassazione

Il ricorrente, soccombente in sede di appello principale, affidava il suo ricorso alla Suprema Corte a due motivi:

1) Con il primo motivo di ricorso il ricorrente lamentava la nullità della sentenza impugnata per violazione degli artt. 329 e 342 c.p.c., nonché dell’art. 2909 c.c., in quanto la Corte Territoriale avrebbe esaminato la questione della sussistenza del requisito della natura sussidiaria dell’azione esperita, in assenza di un motivo di appello dalle parti sul punto.
La S.C. riteneva la doglianza infondata, motivando detto rigetto sulla scorta di due osservazioni: in primis, il ricorrente non aveva riportato, nemmeno in forma sintetica, il gravame proposto dall’ASP, impedendo così al giudice di legittimità di scrutinarne il contenuto.

In aggiunta, osservava la S.C. come, in mancanza di un previo accertamento in ordine alla sussistenza del requisito della sussidiarietà, la questione dovesse ritenersi rilevabile d’ufficio anche in difetto di uno specifico motivo di gravame, come peraltro già affermato da precedenti pronunce della Corte di Cassazione (così, ex multis, Cass. n. 2046/2018, che ha espresso la seguente massima di diritto: “Qualora la sentenza di primo grado abbia accolto l’azione di arricchimento senza causa, senza il previo riscontro positivo del requisito della sussidiarietà dell’azione medesima di cui all’art 2042 c.c., la questione afferente la sussistenza di detto requisito è rilevabile d’ufficio ed esaminabile dal giudice d’appello anche in difetto di uno specifico motivo di gravame, atteso che al riguardo non può dirsi formato il giudicato interno.”) nell’esercizio della funzione nomofilattica che le è propria, la quale, in casi di simil fatta, aveva già escluso la sussistenza del vizio di ultra petizione.

2) Con il secondo motivo, il ricorrente lamentava la violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 2041, 2042 c.c. e 45 e 64 del d. lgs. n. 30 del 2005; in particolare, la sentenza di appello veniva censurata nel capo in cui affermava che, da un punto di vista eminentemente giuridico, il ricorrente avrebbe potuto esercitare nei confronti del convenuto l’azione di responsabilità contrattuale generale ai sensi e per gli effetti dell’ art. 1218 c.c., ovvero quella, più specifica, prevista ai sensi dell’art. 64 del d. lgs. N. 30 del 2005, sia pure in assenza di un’invenzione di servizio.
Si censurava altresì l’apprezzamento della Corte di merito palermitana, nella parte in cui riteneva erroneamente che la prestazione (avente, per l’appunto, ad oggetto la creazione del predetto software) rientrasse nell’alveo dell’unico rapporto contrattuale formalmente costituito tra le parti, quando, al contrario, vi sarebbero stati molteplici incarichi espressi, assunti però in forma verbale, in deroga a quanto previsto dalla normativa in tema di contrattualistica nella pubblica amministrazione.
Da tale complesso intreccio sarebbe conseguita l’esperibilità della sola azione di arricchimento senza giusta causa, dato che sarebbe stata la circostanza che il citato rapporto di c.d. continuità assistenziale, in relazione al quale sarebbero state pagate le ore in plus orario, avrebbe avuto ad esclusivo oggetto l’attività di epidemiologia e farmacovigilanza e non la realizzazione del software.
L’Azienda eccepiva che la domanda del ricorrente si sarebbe fondata sull’accertamento in concreto dell’esistenza di un rapporto contrattuale e sulla riconducibilità a questo delle prestazioni svolte dal primo, con conseguente possibilità e necessità di agire ai sensi dell’art. 1218 c.c.; tale argomento difensivo non veniva condiviso dalla S.C., atteso che la difesa del ricorrente non contestava direttamente l’accertamento in re ipsa, ma, con differente inquadramento giuridico della fattispecie, affermava che non sarebbe stato possibile agire ex art. 1218 c.c., altresì in ragione del contenuto tipizzato del rapporto di c.d. continuità assistenziale, che non poteva concernere la realizzazione di software; per tutti questi motivi, l’unica tutela normativamente accordabile sarebbe stata proprio quella ex. art. 2041 c.c.
Rilevava ulteriormente la Cassazione come, alla luce di quanto riepilogato supra, la ratio decidendi della decisione impugnata consistesse nella riconduzione dell’intera attività oggetto del contendere nell’ambito del preesistente rapporto di lavoro fra le parti, in ordine al quale sarebbe stato autorizzato un plus orario, in funzione del quale il ricorrente avrebbe percepito anche il compenso per le l’esecuzione delle prestazioni aventi ad oggetto l’ambito informatico, affermando, con argomento non condiviso dalla S.C., che il ricorrente avrebbe invece avuto la possibilità di esperire le diverse, e più specifiche, azioni previste dall’art. 1218 c.c. ovvero dall’art. 64, D. Lgs. 30/2005 (ricorrendo una c.d. “invenzione di servizio” o un’ “invenzione d’azienda”), in totale difformità con le censure del ricorrente, secondo cui la prestazione dedotta in giudizio sarebbe stata resa successivamente al “conferimento di un diverso e complesso incarico professionale avente uno specifico e ben determinato oggetto, del tutto diverso da quello proprio del medico”.
Al riguardo, discostandosi dalla ricostruzione fattuale e (soprattutto) giuridica svolta dalla Corte d’Appello, la S.C. osservava che i rapporti con la P.A. richiedono, per la loro instaurazione, la forma scritta ad substantiam, e che, di conseguenza, le prestazioni riconducibili a tali rapporti debbono trovare la loro previsione nel testo dell’accordo: nella specie, però, nessuna clausola dell’unico regolamento contrattuale formalizzato tra le parti paciscenti menziona la creazione, da parte del ricorrente, di sistemi informatici.
La complessità dell’attività prospettata dalla convenuta ha indotto la Corte ad escludere che l’importo versato al ricorrente per il plus orario possa essere servito a compensarlo per le ulteriori mansioni informatiche da lui svolte, trascurando però di analizzare una varietà di prove allegate nei giudizi di merito, in cui emergeva una pluralità di incarichi espressi dall’azienda e mai messi per iscritto (dunque nulli secondo la normativa civilistica nella parte in cui prevede la nullità in ipotesi di assenza di forma in un contratto che la richiede ad substantiam, fermo restando quanto stabilito dall’art. 2126 c.c.).
La Corte d’Appello di Palermo aveva invece fondato il proprio apprezzamento sull’assunto secondo cui le maggiori somme richieste dal ricorrente non potessero essere imputate alle prestazioni informatiche (con conseguente riconducibilità al contratto inter partes avente forma scritta e, per l’effetto, la possibilità di agire ai sensi dell’art. 1218 c.c.) su alcuni documenti con cui il lavoratore sarebbe stato incaricato dai membri al vertice dell’attività di “far parte di gruppi di lavoro deputati all’implementazione dei programmi informatici di supporto alla gestione amministrativa e di ausilio al contenimento delle spese”.
Proseguendo nella censura dell’impugnata sentenza, la S.C. argomentava inoltre come fosse criticabile l’affermazione della Corte territoriale in tema di onus probandi, secondo cui sarebbe stato onere del ricorrente dimostrare l’esclusiva o prevalente destinazione delle ore di plus orario a finalità prettamente sanitarie anche sulla base del fatto che le ore di plus orario concesse ad un medico di guardia devono presumersi attribuite per svolgere finalità inerenti e non altro (almeno in via tendenziale e/o prevalente).
Sebbene in passato la S.C. abbia affermato il principio per il quale le opere creative realizzate dal lavoratore subordinato sono protette in base al disposto dell’ art. 1 del d.lgs. n. 518 del 29 dicembre 1992, di talché, in caso di lesione dell’esercizio del diritto di utilizzo economico di tali opere, è prevista la tutela di cui all’art. 158 della stessa legge, che consente di agire per ottenere la rimozione del fatto dal quale risulta la violazione ovvero per il risarcimento del danno, con conseguente inammissibilità dell’azione di ingiustificato arricchimento, la cui natura è sussidiaria (cfr. Cass., Sez. L. n. 8694 del 9 aprile 2018), per essere detto rimedio esperibile solamente quando manchi qualsiasi altro  titolo in funzione del quale proporre la domanda giudiziale.
Purtuttavia, i c.d. programmi per elaboratore (secondo una, un po’ desueta, definizione del software) sono protetti alla stregua opere letterarie / dell’ingegno ai sensi dell’art. 1 della legge n. 633 del 22 aprile 1941, come modificato dall’art. 1 del d.lgs. n. 518/1992 e, quindi, in linea generale, la loro creazione attribuisce all’autore il diritto esclusivo di utilizzare l’opera, anche a fini economici, ex artt. 64 bis, 64 ter e 64 quater della stessa legge, inseriti nell’art. 5 del richiamato decreto legislativo in attuazione della direttiva 91/250/CEE relativa alla tutela giuridica del software.
La disciplina generale trova peraltro eccezione all’art. 12 bis che attribuisce al datore di lavoro il diritto di utilizzazione esclusiva del programma o della banca dati creati dal lavoratore, a condizione che l’opera sia riferibile all’esercizio delle mansioni, o sia stata creata a seguito di istruzioni impartite dallo stesso datore.
Ulteriormente si osservava come il ricorrente non fosse un lavoratore dipendente, quindi avrebbe potuto agire ex art. 158, D. Lgs. cit. (oltre ad altre norme previste dagli articoli precedenti del medesimo Decreto Legislativo, quali, a titolo esemplificativo, l’azione inibitoria), atteso che tale norma attribuisce a colui che venga leso nell’esercizio di un diritto di utilizzo economico a lui spettante il diritto di agire in giudizio per ottenere che sia distrutto o rimosso lo stato di fatto conseguente alla violazione, così come previsto dalla regola generale in materia.
Nonostante quanto premesso, la potenziale rilevanza della legge n. 633/1941 nel caso in esame e l’esistenza del principio espresso dalla già citata sentenza Cass n. 8694 del 9 aprile 2018 non possono però condurre, argomenta la S.C. nella pronuncia in esame, a negare al ricorrente l’esperibilità dell’azione di ingiustificato arricchimento al fine di veder tutelata la propria situazione giuridica soggettiva: infatti, in primo luogo, la giurisprudenza della Corte ha affermato che presupposto per proporre tale azione sia la mancanza, accertabile anche d’ufficio, di un’azione tipica derivante da un contratto o prevista dalla legge con riferimento ad una fattispecie determinata, pur se proponibile contro soggetti diversi dall’arricchito.
Tale azione risarcitoria è tipicamente riconducibile alla figura generale del risarcimento del danno.
In secondo luogo, va considerato che il ricorrente non ha prospettato di aver subito un danno ingiusto ex art. 2043 c.c. (ossia a titolo di responsabilità aquiliana), né di aver agito per conseguire il risarcimento del danno da inadempimento, né ha domandato un’inibitoria o la distruzione dello stato di fatto dal quale deriva la violazione (tutele previste dai già citati artt. 156 e 158 della legge n. 633 del 1941), ma si è lamentato di non aver ricevuto dalla P.A. il compenso che gli sarebbe spettato in seguito al conferimento di un diverso e complesso incarico avente uno specifico oggetto, ontologicamente molto differente da quello proprio del contratto avente per oggetto prestazioni di natura medica.
La Cassazione ha pertanto avuto modo di ribadire la funzione dell’azione di arricchimento senza causa, in applicazione del generale principio giusprivatistico in funzione del quale ciascuno spostamento patrimoniale deve trovare una causa giustificativa.
Al riguardo, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che, poiché la funzione dell’azione di indebito arricchimento è l’eliminazione di uno squilibrio determinatosi senza giusta causa, a seguito del conseguimento di un’utilità economica da parte di un soggetto, l’esercizio della stessa non trova impedimento,  bensì giustificazione, nell’accertamento della non proponibilità dell’azione contrattuale derivante dalla nullità del titolo che ne costituisce il fondamento (Cass., Sez. 2, n. 8040 del 2 aprile 2009, secondo cui: “Poiché la funzione dell’azione di indebito arricchimento è l’eliminazione di uno squilibrio determinatosi senza giusta causa, a seguito del conseguimento di una utilità economica da parte di un soggetto con relativa diminuzione patrimoniale di un altro soggetto, l’esercizio della stessa non trova impedimento – bensì giustificazione – nell’accertamento della non proponibilità dell’azione contrattuale derivante dalla nullità del titolo che ne costituisce il fondamento; ne consegue che tale azione può essere proposta dall’appaltatore che non abbia ricevuto, in tutto o in parte, il corrispettivo pattuito a causa della nullità del contratto di appalto avente ad oggetto la realizzazione di un’opera senza la prescritta concessione edilizia, non potendosi escludere la locupletazione del committente in ragione della precarietà del suo diritto dominicale sull’immobile abusivamente costruito, cioè della possibilità di provvedimenti autoritativi di demolizione dello stesso, dovendosi comunque tener conto dell’impiego che egli ne abbia eventualmente fatto nonostante quella precarietà e delle utilità economiche che ne abbia ricavato.”)
L’azienda, peraltro, in sede di note conclusive, sosteneva che, ove si volesse accedere alla tesi del ricorrente, dovrebbe tenersi conto che il dedotto affidamento dell’incarico in esame sarebbe nullo per contrasto con norme imperative e con l’ordine pubblico e che tale nullità renderebbe non proponibile la domanda in base alla menzionata sentenza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione n. 33954 del 5 dicembre 2023.

Infatti, le prestazioni rese rientrerebbero tra i servizi informatici di cui all’All. II A, ctg. 7 del d. lgs. N. 163 del 12 aprile 2006, assoggettate pertanto all’applicazione del codice dei contratti della PA, di talché il loro affidamento sarebbe stato subordinato all’espletamento di procedure di evidenza pubblica in quanto, ove il valore dei servizi resi fosse stato effettivamente quello da lui rivendicato, gli stessi sarebbero stati di importo superiore alla soglia comunitaria, fissata dall’art. 28 del d. lgs. N. 163 del 2006, per gli appalti di servizi.
Al contrario, qualora vi fosse stato un appalto, il contratto sarebbe stato invalido, atteso che, per la P.A. controricorrente, non vi sarebbe stata nessuna procedura di evidenza pubblica per la sua aggiudicazione, intervenuta nelle forme di una non consentita trattativa privata, ovvero di una procedura negoziata senza previa pubblicazione di un bando di gara.
In definitiva, il contratto de quo sarebbe infine stato nullo, secondo la ricostruzione difensiva, per contrasto con le direttive dell’UE in materia di aggiudicazione degli appalti: ma anche tesi non veniva condivisa dalla S.C., atteso che già da tempo l’orientamento di legittimità è volto ad ammettere la proponibilità dell’azione di cui all’art. 2041 c.c. in ipotesi di vizi formali della procedura di instaurazione di un vincolo contrattuale avente ad oggetto la prestazione d’opera.

Sul punto si veda quanto affermato da Cass. n. 3905/2010, che ha affermato: “In tema di azione d’indebito arricchimento nei confronti della p.a., conseguente all’assenza di un valido contratto d’opera professionale, l’indennità prevista dall’art. 2041 c.c. va liquidata nei limiti della diminuzione patrimoniale subita dall’esecutore della prestazione resa in virtù del contratto invalido, con esclusione di quanto lo stesso avrebbe percepito se il rapporto negoziale fosse stato valido ed efficace. Pertanto, ai fini della determinazione dell’indennizzo dovuto al professionista, la parcella, ancorché vistata dall’ordine professionale, non può essere assunta come parametro di riferimento, non trattandosi in questo caso di corrispettivo per prestazioni professionali, ma della individuazione di una somma che va liquidata, in forza delle risultanze processuali, se ed in quanto si sia verificato un vantaggio patrimoniale a favore della p.a., con correlativa perdita patrimoniale della controparte.”)            
La decisione impugnata veniva cassata con rinvio alla corte d’appello di Palermo, che deciderà la causa nel merito anche in ordine alle spese di lite, comprensive del giudizio di legittimità, applicando il seguente principio di diritto: “L’ideatore di un software che abbia eseguito la sua prestazione sulla base di un contratto concluso con una P.A. nullo per mancanza della forma scritta o per violazione delle norme che regolano la procedura finalizzata alla sua conclusione, ove chieda alla stessa P.A. di essere remunerato per l’attività svolta in suo favore, può proporre l’azione di ingiustificato arricchimento. Il giudice ha il potere di determinare in via equitativa il relativo indennizzo, il quale non può coincidere con il compenso che comunemente sarebbe stato corrisposto per la detta prestazione, ma deve ristorare la diminuzione patrimoniale subita dall’autore dell’opera e, quindi, i costi ed esborsi sopportati ed il sacrificio di tempo, di energie mentali e fisiche del detto autore, al netto della percentuale di guadagno”.

Luigi Antonio Beccaria, avvocato in Milano e docente aggiunto di diritto privato nell’Università degli studi di Milano

Visualizza il documento: Cass., 18 marzo 2024, n. 7178

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