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By Rivista Labor – Pacini Giuridica · 12 April 2024

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Flessibilità oraria “temporale” e “spaziale”. Illegittimità del licenziamento per mancato rispetto dell’orario di lavoro

Con ordinanza n. 2761 del 30 gennaio 2024, la Corte di Cassazione ha avuto modo di pronunciarsi sulla sussistenza della giusta causa di licenziamento intimato ad una dipendente per non aver rispettato l’orario di lavoro dopo averle concesso di lavorare con flessibilità di orari ed anche non in presenza.

La lavoratrice licenziata rivestiva il ruolo di coordinatrice con mansioni di supervisione e controlli dei cantieri e l’appunto disciplinare mosso nei suoi confronti riguardava, a detta del datore, la sistematica violazione delle disposizioni aziendali in ordine all’orario di lavoro, lo svolgimento della prestazione in modo incompleto e discontinuo, con tanto di disbrigo di incombenze personali durante il tempo di lavoro retribuito.

Il datore appuntava dunque alla lavoratrice di aver abusato della fiducia concessale, avendo approfittato della mancanza di un sistema di rilevazione automatica delle presenze e del fatto che le sue mansioni includevano altresì il recarsi all’esterno dell’azienda per effettuare sopralluoghi. In via di estrema sintesi, dopo essere risultata soccombente nella fase sommaria del giudizio di primo grado, la società proponeva opposizione dinanzi al Tribunale adito che, tuttavia, confermava l’ordinanza opposta.

La società impugnava quindi la sentenza dinanzi alla Corte di Appello che rigettava il reclamo, in quanto dall’istruttoria svolta in corso di causa non erano risultate provate le circostanze contestate ovvero lo svolgimento incompleto e discontinuo della prestazione ed il disbrigo di attività personali durante l’orario di lavoro, essendo emerso, piuttosto, che i coordinatori non erano soggetti a vincoli di orario.

Avverso il provvedimento di rigetto emesso dalla Corte di Appello, nonostante la doppia (anzi tripla) conforme, la società ricorreva per Cassazione lamentando la violazione degli artt. 111 Cost, 132 c.p.c. e 118 disp. att. c.p.c. per non avere la Corte territoriale considerato la normativa aziendale sugli orari giornalieri; per aver ritenuto che non si potesse contestare alla lavoratrice il mancato svolgimento, almeno in misura maggioritaria, della prestazione ben potendo – secondo i Giudici – la dipendente aver tenuto i necessari contatti con i clienti per via telematica in tutte le ore nelle quali risultava in luoghi diversi da quelli aziendali, ed infine, per non valutato le argomentazioni della società circa l’impossibilità di svolgere l’attività di coordinatore da remoto.

La Cassazione ha respinto le censure della società, confermando le argomentazioni espresse dalla Corte di Appello. Secondo la S.C., il mancato rispetto dell’orario non può integrare una giusta causa di licenziamento, laddove la lavoratrice svolga la propria attività lavorativa in autonomia, anche da remoto, e dunque, nel caso in cui la prestazione sia flessibile dal punto di vista temporale e spaziale.

In sostanza, la S.C. ha rilevato che non può costituire giusta causa di licenziamento la circostanza che il dipendente svolga prevalentemente da remoto la propria prestazione. Ciò soprattutto, nel caso in cui le mansioni assegnate prescindano dalla presenza fisica in un determinato luogo ed il lavoratore disponga dei mezzi aziendali necessari per svolgere da remoto le attività affidategli.

Peraltro, secondo la giurisprudenza consolidata, il rispetto di un orario di lavoro predeterminato è un elemento che può contribuire alla corretta qualificazione del rapporto intercorso tra le parti se valutato unitamente ad altri elementi, avendo una portata soltanto sussidiaria e non già decisiva per l’individuazione del lavoro subordinato (cfr. Trib. Napoli, 11 gennaio 2023, n. 5812; Trib. Napoli, 24 gennaio 2023, n. 432; Trib. Napoli, 26 gennaio 2023, n. 539; Trib. Roma, 16 febbraio 2023, n. 1601).

La Corte ha precisato che per esercitare legittimamente il recesso per giusta causa, il datore di lavoro deve dimostrare che il dipendente abbia dedicato il proprio tempo ad attività incompatibili con quelle lavorative in modo da far venire meno il proprio apporto di risultato o quando riesca a dimostrare che il suo tempo è stato dedicato ad altre attività, non compatibili con quelle lavorative, in misura tale da escludere la prestazione oraria.

La precisazione della Corte lascia intendere che, con tutta probabilità, il datore di lavoro non ha offerto ai giudici un adeguato supporto probatorio delle accuse mosse alla dipendente (art. 5, L. 604/1966) considerando che, come è noto, nelle ipotesi di “scarso rendimento”, come quella in sostanza imputata alla dipendente nel caso scrutinato dalla decisione in commento, il relativo onere può risultare particolarmente gravoso.

Per Cass., 6 aprile 2023, n. 9453, nel licenziamento per scarso rendimento del lavoratore, rientrante nel tipo del licenziamento per giustificato motivo soggettivo, il datore di lavoro – cui spetta l’onere della prova – non può limitarsi a provare solo il mancato raggiungimento del risultato atteso o l’oggettiva sua esigibilità, ma deve anche provare che la causa di esso derivi da colpevole negligente inadempimento degli obblighi contrattuali da parte del lavoratore nell’espletamento della sua normale prestazione.

Per Trib. Milano, 1° luglio 2008 (in OGL, 2008, I, 698, n. ANIBALLI): «Spetta al datore di lavoro dimostrare i fatti posti a fondamento della contestazione di scarso rendimento e, a tal fine, questi non può limitarsi a provare solo il mancato raggiungimento del risultato atteso o l’oggettiva sua esigibilità, ma deve altresì dimostrare che esso derivi da colpevole e negligente inadempimento degli obblighi contrattuali da parte del lavoratore nell’espletamento della sua normale prestazione; pertanto, dovrà tenersi conto del grado di diligenza normalmente richiesto per la prestazione lavorativa e di quello effettivamente usato dal lavoratore, nonché dell’incidenza dell’organizzazione complessiva del lavoro nell’impresa e dei fattori socio-ambientali; la negligenza, peraltro, può essere provata anche attraverso presunzioni».

Nel caso sottoposto al suo scrutinio, dunque, la S.C. ha confermato l’illegittimità del licenziamento, poiché dall’istruttoria era emersa l’assenza di un orario vincolante per la dipendente che ricopriva il ruolo di coordinatrice con compiti di gestione e di tenuta in autonomia dei contatti con i clienti (senza evidentemente che il datore fosse riuscito a provare la malagestio del tempo di lavoro per scopi “altri” dall’adempimento).

In particolare, dall’istruttoria e dalla documentazione depositata era risultato che “la lavoratrice ben potesse lavorare da remoto, senza con questo far venire meno la diligenza dovuta”, che “Lo stesso elenco di mansioni consente di evincere che alcune di esse prescindono completamente dalla presenza fisica in un determinato luogo” ed, infine, che la dipendente, quale coordinatrice, lavorava da casa in quanto in possesso della scheda sim aziendale per lavorare dove e quando ritenuto opportuno.

La Cassazione, aderendo alle argomentazioni della corte territoriale, aveva concluso precisando che, “in ragione del particolare ruolo di coordinatrice dalla stessa rivestito, con non pochi (…) compiti che, secondo il giudizio della stessa, prescindevano “completamente dalla presenza fisica in un determinato luogo”, abbia potuto svolgere dette attività (non tutte) nei giorni e nelle ore che la società datrice di lavoro indica come “assenza dal servizio” e che abbia potuto tenere i necessari contatti per via telefonica in tutte le ore nelle quali la stessa risultava in luoghi diversi da quelli aziendali”.

Secondo la S.C., dunque, è illegittimo il licenziamento di un dipendente se, in funzione dell’attività svolta, esegue compiti in modalità telefonica o telematica e comunque non in presenza sul luogo di lavoro. L’addebito relativo alla violazione dell’orario di lavoro ha fondamento solo se si dimostra che il lavoratore non ha fornito il proprio contributo o ha dedicato il proprio tempo ad attività estranee al lavoro in modo significativo.

Secondo la giurisprudenza, infatti, lo svolgimento di attività extra-lavorativa durante l’orario di lavoro, anche in un settore non interferente con quello gestito dal datore, è astrattamente idoneo a ledere gli interessi di quest’ultimo, visto che le energie lavorative del prestatore vengono distolte ad altri fini. Ne consegue che finisce per essere ingiustificata la corresponsione della retribuzione che, in relazione alla parte commisurata alla attività non resa, costituisce per il datore un danno economico e per il lavoratore un profitto ingiusto (cfr. Cass., 5 maggio 2000, n. 5629; Cass., 9 gennaio 2015, n. 144; Cass., 25 maggio 2017, n. 13199).

Con la sentenza in commento, in difetto della dimostrazione dell’uso improprio del tempo di lavoro retribuito o del mancato o insufficiente adempimento degli obblighi di lavoro, la Corte di Cassazione ha inteso attribuire rilevanza alle specifiche condizioni lavorative del dipendente prima di procedere con un licenziamento per giusta causa basato sulla violazione degli orari di lavoro e stabilito che il lavoro a distanza e la flessibilità oraria, soprattutto per ruoli che prevedono compiti di gestione e coordinamento, possono rendere inapplicabili le tradizionali logiche di controllo dell’orario di lavoro.

Giulia Aristei, avvocato in Pisa

Visualizza il documento: Cass., ordinanza 30 gennaio 2024, n. 2761

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