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By Rivista Labor – Pacini Giuridica · 20 May 2024

Aggiornamenti, Contratto di lavoro

Cassazione Sezioni Unite 6 marzo 2024, n. 6229: assimilabilità dell’incentivo all’esodo al trattamento di fine rapporto ai fini dell’applicazione dell’art. 12-bis L. n. 898/1970

 1. Premessa

Con la sentenza 6 marzo 2024 n. 6229, le Sezioni Unite si soffermano sulla natura giuridica dell’indennità di incentivo all’esodo e sulla possibilità di applicazione alla stessa dell’art. 12-bis L. 898/1970, soffermandosi altresì sugli strumenti interpretativi messi a disposizione dalla legge e vagliando la possibilità di utilizzare i significati attribuiti agli istituti in altri ambiti del diritto alla fattispecie civile sottoposta al suo vaglio.

In ultimo, si afferma il seguente principio di diritto: «La quota dell’indennità di fine rapporto spettante, ai sensi dell’art. 12-bis della l. n. 898 del 1970 n. 898, introdotto dall’art. 16 L. n. 74 del 1987, al coniuge titolare dall’assegno divorzile e non passato a nuove nozze, concerne non tutte le erogazioni corrisposte in occasione della cessazione del rapporto di lavoro, ma le sole indennità, comunque denominate, che, maturando in quel momento, sono determinate in proporzione della durata del rapporto medesimo e dell’entità della retribuzione corrisposta al lavoratore; tra esse non è pertanto ricompresa l’indennità di incentivo all’esodo con cui è regolata la risoluzione anticipata del rapporto di lavoro».

Più nello specifico, la questione intorno alla quale vertono i mezzi di censura azionati dalla ricorrente principale si innesta nel tema della delimitazione della prefata fattispecie normativa, anche con riferimento all’indennità di fine rapporto erogata al coniuge obbligato alla corresponsione dell’assegno di divorzio.

Tale indennità è riconosciuta all’altro coniuge nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, se non passato a nuove nozze e in quanto sia titolare di assegno ai sensi dell’art. 5, all’atto della cessazione del rapporto di lavoro del coniuge tenuto al versamento, anche se l’indennità viene a maturare dopo la sentenza. Il secondo comma dello stesso articolo precisa, poi, che tale percentuale è pari al quaranta per cento dell’indennità totale riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio.

Si tratta di comprendere se sia possibile far rientrare nella detta indennità il cosiddetto incentivo all’esodo, ossia, quella prestazione cui, in base a un intercorso accordo negoziale, è tenuto il datore di lavoro a fronte della disponibilità, manifestata dal lavoratore, di addivenire allo scioglimento anticipato del rapporto di prestazione d’opera.

La necessità di intervento delle Sezioni Unite sul punto si è resa manifesta in considerazione dei diversi orientamenti formatisi sul punto.

Secondo l’arresto della Sesta Sezione della Cassazione (cfr., Cass. 12 luglio 2016, n. 14171), è necessario valorizzare la circostanza secondo cui le somme corrisposte a tale titolo di indennità di incentivo all’esodo non avrebbero natura liberale né eccezionale, costituendo, piuttosto, reddito da lavoro dipendente.

A tale approdo la Cassazione giunge in considerazione del fatto che dette somme sono predeterminate al fine di sollecitare e remunerare, mediante una vera e propria controprestazione, il consenso del lavoratore alla risoluzione anticipata del rapporto.

A tale orientamento si contrappone la tesi fatta propria dalla Prima Sezione, secondo cui l’indennità di cui è menzione nell’art. 12-bis riguarda unicamente quell’indennità, ossia il trattamento di fine rapporto, che, maturando alla cessazione del rapporto di lavoro, è determinata in proporzione della durata del rapporto medesimo e dell’entità della retribuzione corrisposta al lavoratore.

Per tale via, non potrebbe estendersi la portata interpretativa della norma sino a comprendervi l’incentivo all’anticipato collocamento in quiescenza (cfr., Cass. 17 aprile 1997, n. 3294).

2. Sulla natura giuridica dell’indennità di fine rapporto

Ai nostri fini, dunque, ci si sofferma sulla natura giuridica dell’incentivo all’esodo, al fine di comprendere se il quantum versato al lavoratore affinché lasci il posto di lavoro in anticipo sia equiparabile o abbia consistenza diversa rispetto alle somme erogate a titolo di trattamento di fine rapporto.

La circostanza non è di poco momento, in considerazione delle ripercussioni che la relativa qualificazione giuridica potrebbe avere anche in altre questioni, più strettamente connesse alla materia giuslavoristica.

In primis, occorre ricordare come il trattamento di fine rapporto vada ancorato allo sviluppo economico della carriera del lavoratore, non essendo più basato – come in passato – sull’ultima retribuzione percepita dallo stesso. Al trattamento di fine rapporto è, infatti, riconosciuta la natura di retribuzione differita. Più nello specifico, si è parlato di «quota differita della retribuzione condizionata sospensivamente nella riscossione dalla risoluzione del rapporto di lavoro» (Cass. 17 dicembre 2003, n. 19309; Cass. 11 aprile 2003, n. 5720). Per tale via, la quota dell’indennità di fine rapporto ha per l’appunto riguardo a quella parte della retribuzione, destinata al sostegno del nucleo durante la convivenza dei coniugi, percepita in un momento successivo a quello nel quale il diritto viene a sussistenza. È per questo che, ormai, se ne ammette il carattere retributivo e sinallagmatico (cfr., Cass. 8 gennaio 2016, n. 164; Cass. 14 maggio 2013, n. 11479).

Seguendo tale indirizzo, il carattere retributivo della prestazione, che diviene esigibile solo alla cessazione del rapporto di lavoro, consente l’attribuzione di una quota di tale importo al coniuge che abbia diritto all’assegno di divorzio.

In pratica, non è l’esigibilità differita, dunque, lo spostamento in avanti del momento della percezione della somma, a sganciare l’importo dalla retribuzione maturata dal lavoratore complessivamente intesa.

Il ragionamento adottato è dunque il seguente: se il coniuge debole ha diritto alla percezione dell’assegno di mantenimento e quest’ultimo viene calcolato sulla base delle sostanze del coniuge tenuto al pagamento, il TFR non può non essere considerato nel calcolo complessivo circa la somma spettante al coniuge avente diritto, in virtù di una dimensione solidaristica, assistenziale e perequativo-compensativa dell’erogazione, secondo l’ultimo approdo della giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. Sez. U. 11 luglio 2018, n. 18287).

Ora, ai fini del presente contributo, non possiamo che lasciare in disparte considerazioni sostanziali con riguardo alla congruenza con l’attuale periodo storico della prefata normativa, alla quale la giurisprudenza, in assenza di un intervento del Parlamento, non può che limitarsi a fornire una interpretazione evolutiva.

Ad ogni buon conto, la sentenza in commento argomenta lungamente con riguardo all’ancoraggio del TFR alla retribuzione del coniuge obbligato al mantenimento, in punto di natura giuridica e finalità, sì da poter fornire adeguata giustificazione all’ulteriore sacrificio a questi imposto.

In definitiva, secondo il collegio – che fa proprie le conclusioni del pubblico ministero – «il trattamento di fine rapporto è un indice del livello reddituale raggiunto dall’ex coniuge sicché, ove tale livello reddituale dipenda anche dal sacrificio individuale dell’altro coniuge, non vi sarebbe ragione di non considerarlo quale fonte di una provvidenza a favore di quest’ultimo».

Alla luce di tutto quanto sin qui descritto, le Sezioni Unite confermano la spettanza, in favore del coniuge debole, della quota di TFR maturata da quello tenuto al mantenimento (sia esso lavoratore pubblico o privato), in forza di un assegno divorzile attribuito in virtù dell’art. 12-bis legge divorzile. Con la specificazione che, nel calcolo relativo al quantum, si terrà conto del periodo trascorso dagli ex coniugi in costanza di matrimonio, a nulla rilevando la convivenza.

3. Sulla natura giuridica dell’indennità di incentivo all’esodo

Sono, invece, escluse dal computo le ulteriori somme percepite a titolo diverso, ossia, quelle che nulla hanno a che vedere con la retribuzione maturata nel corso del normale rapporto di lavoro.

Ad esempio, non spettano al coniuge cui sia stato riconosciuto il diritto all’assegno divorzile le prestazioni private di natura previdenziale e assicurativa, come l’indennità di cessazione dal servizio corrisposta ai notai (Cass. 11 aprile 2003, n. 5720, cit.), l’indennità da mancato preavviso per licenziamento in tronco, nonché l’indennità percepita a titolo di risarcimento del danno per illegittimo licenziamento. Ciò perché tali fattispecie hanno evidentemente ad oggetto il ristoro di un danno le cui conseguenze si sviluppano nel futuro (così, ancora, Cass. 17 dicembre 2003, n. 19309).

Resta ora da soffermarsi sulla natura giuridica dell’indennità di incentivo all’esodo, per comprendere se essa sia o meno da comprendere entro il perimetro applicativo dell’art. 12-bis citato.

A ben guardare, secondo l’opzione fatta propria dalla Cassazione, l’indennità di incentivo all’esodo non costituisce retribuzione differita. La somma erogata è del tutto svincolata dalla carriera lavorativa del lavoratore, a dispetto – invece – del TFR, sulla base di quanto precedentemente osservato.

Per questa via, la natura giuridica dell’indennità in parola è quella di attribuzione patrimoniale discendente da un sopravvenuto accordo con cui si remunera il coniuge lavoratore per il prestato consenso all’anticipato scioglimento del rapporto di lavoro.

La Cassazione, poi, si sofferma sulla qualificazione dell’incentivo nella giurisprudenza tributaria, al fine di comprendere se il significato attribuito all’istituto in ambito tributario possa essere applicato in ambito civilistico. Tale opzione ermeneutica avrebbe avuto quale conseguenza quella di ampliare l’ambito applicativo dell’art. 12-bis, sì da ricondurvi anche all’incentivo all’esodo.

In primis, dunque, si richiama la formulazione dell’art. 49 co. 1 TUIR ratione temporis applicabile, con riferimento alla definizione di redditi da lavoro dipendente, i quali «derivano da rapporti aventi per oggetto la prestazione di lavoro, con qualsiasi qualifica, alle dipendenze e sotto la direzione di altri, compreso il lavoro a domicilio quando è considerato lavoro dipendente secondo le norme della legislazione sul lavoro».

Il successivo art. 51, poi, afferma che il reddito da lavoro dipendente è costituito da «tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo d’imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro».

Infine, l’art. 17 (già art. 16), comma 1, lett. a) dispone che sono soggetti a tassazione separata il trattamento di fine rapporto di cui all’art. 2120 c.c., le indennità equipollenti, comunque denominate, commisurate alla durata dei rapporti di lavoro dipendente e le «altre indennità e somme percepite una volta tanto in dipendenza della cessazione dei predetti rapporti, comprese l’indennità di preavviso».

Conseguentemente, dalla lettura delle norme citate, è evidente come:

a) l’incentivo all’esodo costituisca somma derivante da lavoro dipendente;

b) esso è sottoposto a tassazione separata.

Pertanto, ove si traslasse in ambito civilistico la definizione di incentivo all’esodo quale reddito da lavoro dipendente, anche una quota di quest’ultimo non potrebbe che spettare al coniuge titolare dell’assegno.

Invero, secondo le Sezioni Unite, le norme tributarie non possono sic et simpliciter sostituire la qualificazione giuridica fornita ad un istituto sul piano civilistico, potendo incidere primariamente solo sul regime fiscale applicato. Ciò anche in considerazione dell’art. 12 Preleggi, il quale prescrive una interpretazione improntata al dato letterale e alla ratio della norma. Se ne deduce come il ricorso a significati attribuiti ad una data norma in altri ambiti è processo ermeneutico residuale, da applicarsi – dunque – solo ove l’interprete non fosse in grado di fornire interpretazione adeguata alla luce dei criteri ermeneutici generali. Non è infatti possibile invertire l’ordine logico imposto dalle regole che presidiano all’interpretazione.

4. Alcune brevi conclusioni

Da tutto quanto sin qui descritto, i giudici di legittimità ritengono che, ai fini dell’inapplicabilità della disciplina della misura di cui all’art. 12-bis all’incentivo all’esodo, deve guardarsi alla circostanza per cui l’indennità in questione non può annoverarsi tra quelle che maturano alla data di cessazione del rapporto lavorativo, né può dirsi che la stessa venga determinata in misura proporzionale alla durata del rapporto di lavoro e all’entità della retribuzione corrisposta.

Pertanto, non competerà alcunché per tale titolo all’avente diritto all’assegno, giacché l’indennità in questione è destinata ad operare non già de praeterito (con riferimento a compensi già spettanti al lavoratore e non ancora esigibili), ma de futuro.

In pratica, in nessun modo il coniuge ha concorso (né potrebbe), prestando la sua assistenza e il suo aiuto alla conduzione della famiglia, alla formazione del quantum relativo all’indennità di incentivo all’esodo, che è e resta spettanza di cui è titolare il solo coniuge obbligato.

Si tratta, d’altronde, dell’unica interpretazione razionalmente possibile, in virtù – altresì – del criterio sistematico e della necessità di guardare, nell’attribuire un preciso significato alle norme, al contesto storico e sociale nel quale le stesse debbono trovare applicazione.

Maria Rosaria Calamita, dottore di ricerca in scienze giuridiche e funzionario Ufficio Legale – Consiglio Nazionale delle Ricerche

Visualizza il documento: Cass., sez. un., 7 marzo 2024, n. 6229

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