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By Rivista Labor – Pacini Giuridica · 4 May 2024

Aggiornamenti, Contratto di lavoro

Aspettativa senza assegni per motivi di salute al termine del periodo di comporto: necessaria l’indicazione, sul certificato medico, della data di inizio e di fine della malattia

L’art. 26.9 CCNL delle attività ferroviarie del 16 aprile 2003 stabilisce che «prima che siano superati i limiti di comporto, il lavoratore a tempo indeterminato, perdurando lo stato di malattia, può richiedere un periodo non retribuito di aspettativa per motivi di salute della durata massima di 12 mesi, commisurato a quanto indicato nella certificazione medica.

Qualora l’ultimo evento morboso in atto al termine del periodo di comporto risulti di durata superiore a 2 mesi, il periodo di aspettativa di cui al precedente comma sarà elevato fino a 16 mesi. L’azienda concederà tale aspettativa al termine del periodo di comporto, al fine di agevolare la guarigione e il rientro in servizio del lavoratore. Il suddetto periodo di aspettativa non retribuita non è comunque considerato utile ad alcun effetto contrattuale».

La norma in parola, dunque, prevede l’istituto della conservazione del posto di lavoro a favore del lavoratore che, prima del termine del periodo di comporto (ossia il periodo durante il quale il datore di lavoro non può licenziare il lavoratore che fruisce della malattia), faccia richiesta di aspettativa senza assegni, al fine di addivenire alla completa guarigione.

Come noto, l’aspettativa è un periodo durante il quale il rapporto di lavoro si considera, per così dire, “congelato”. Il lavoratore ha diritto alla conservazione del posto di lavoro, sebbene senza ottenere il compenso previsto. Esistono diverse “tipologie” di aspettativa normate all’interno dei contratti collettivi, che ne stabiliscono durata, casistiche di concessione, modalità di richiesta e fruizione, continuativa o frazionata.

La vicenda sub iudice attiene al caso di un dipendente che aveva fatto richiesta di applicazione dell’istituto per un periodo di trenta giorni, avendo terminato il periodo di comporto. Tuttavia, il datore di lavoro ne rifiutava l’attivazione, non essendo stato specificato sul certificato del medico la data di inizio e di fine del periodo necessario a raggiungere la completa guarigione. Ne era seguito il licenziamento del dipendente.

La questione giuridica sottesa al caso esaminato nell’ordinanza 12 marzo 2024 n. 6466, qui segnalata, concerne, dunque, l’interpretazione dell’art. 26.9 CCNL delle attività ferroviarie del 16 aprile 2003, dunque, se sia o meno necessario che il certificato medico rilasciato dallo specialista indichi la data di inizio e di fine del periodo ai fini della concessione dell’aspettativa.

Secondo la prospettiva del lavoratore, la norma non imporrebbe tale indicazione, sicché la concessione del periodo dell’aspettativa costituirebbe un atto dovuto da parte del datore di lavoro (si tratterebbe di un diritto potestativo posto in capo al lavoratore), in quanto la necessità di riposo era stata certificata dal medico, benché in assenza di una data di inizio e fine specificata.

Al fine di meglio inquadrare la questione, occorrerà soffermarsi sugli elementi che devono essere compresenti affinché sia possibile attivare l’istituto in parola e che vengono richiamati dal Collegio. Innanzitutto, l’art. 29.9 postula a) che il lavoratore si trovi in un perdurante stato di malattia certificato, tale da consentirgli l’assenza dal lavoro, b) che non sia stato superato il periodo di comporto, sussistendo il rischio che – per il protrarsi della malattia o della sua reiterazione – lo stesso possa essere superato.

L’azienda, d’altro canto, al fine di agevolare la guarigione e il rientro in servizio del lavoratore, evitando per tale via il licenziamento, deve concedere l’aspettativa da fruire al termine del periodo di comporto e in continuità con lo stesso, sicché non è messo in alcun modo in dubbio la spettanza del diritto in capo al lavoratore, non sussistendo alcun margine di discrezionalità in capo alla parte datoriale.

Tale periodo di aspettativa, così riconosciuto, non può superare un certo tetto massimo.

La richiesta del lavoratore deve essere fondata su motivi di salute. Infine, il periodo di aspettativa richiesto deve essere commisurato a quanto indicato nella certificazione. Ed è proprio quest’ultima affermazione sulla quale è necessario soffermarsi: la concessione è sì doverosa purché scortata dalla certificazione attestante il periodo che, presumibilmente, sarà necessario al lavoratore per poter guarire. Si tratta, in pratica, di comprendere in cosa consista la definizione di “commisurazione” ante indicata.

Il Collegio ha ritenuto che tale uso indichi come l’aspettativa per motivi di salute possa essere richiesta nella misura necessariamente individuata nella certificazione medica, perché sempre di assenza giustificata dall’esistenza di uno stato morboso deve trattarsi.

Ordunque il certificato medico in discussione parlava di uno stato di salute che “necessita di periodi di riposo saltuario (al bisogno anche uno o due giorni) e non necessariamente periodi continuativi”. Secondo la Cassazione una simile dicitura non sarebbe atta a sostenere una interpretazione che possa lasciare al lavoratore la scelta circa l’attivazione dell’istituto dell’aspettativa senza assegni e circa la durata del periodo di riposo anzidetto. Riassumendo: il lavoratore non può decidere se e quando fruire del beneficio, in assenza di una specifica indicazione temporale da parte dello specialista.

La giurisprudenza ha ritenuto possibile per il datore di lavoro di determinarsi al licenziamento del lavoratore non appena superato il periodo di comporto, dunque, anche prima del rientro del prestatore. È altresì possibile, però, che la parte datoriale possa attendere il predetto rientro, al fine di sperimentare in concreto se residuino o meno margini di riutilizzo del dipendente all’interno dell’assetto organizzativo.

Per tale via, può parlarsi di affidamento incolpevole del dipendente nel ritenere volontà del datore di lavoro proseguire con il rapporto, ove vi sia prolungata inerzia – da parte di quest’ultimo – nel recedere dal rapporto successivamente al rientro del lavoratore in servizio.

Il giudice è dunque chiamato, in questi casi, a formulare un giudizio circa la “tempestività del licenziamento”.

Ovviamente, tale convincimento va contemperato con il riconoscimento al datore di lavoro della possibilità di usufruire di uno spazio deliberandi¸ atto a consentirgli le necessarie valutazioni circa la continuazione del rapporto di lavoro e gli interessi aziendali (è infatti consentito al datore di lavoro attendere la ripresa del servizio per sperimentare in concreto se residuino margini di riutilizzo del dipendente). È, allora, di tutta evidenza come non sia possibile individuare un generale criterio cronologico predeterminato, dovendosi consentire comunque al giudice di operare una valutazione caso per caso.

Nel caso di specie, pertanto, il Collegio ha ritenuto legittimo il licenziamento del dipendente, a causa del superamento del periodo di comporto, non avendo il datore di lavoro trascurato la richiesta di fruizione di un successivo periodo di aspettativa per malattia, bensì lecitamente  decidendo di non attivare l’istituto, in quanto non indicato nel certificato medico, in via specifica, il periodo necessario al lavoratore per recuperare la propria salute e non essendo nel diritto di quest’ultimo indicare egli stesso di quale periodo debba fruire.

Maria Rosaria Calamita, dottore di ricerca in scienze giuridiche e funzionario Unità Affari Legali del Consiglio Nazionale delle Ricerche

Visualizza il documento: Cass., ordinanza 12 marzo 2024, n. 6466

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