Cass. n. 2451 del 25 gennaio 2024: riconoscimento di rapporto subordinato di un giornalista, decadenze processuali e molto altro. Una fattispecie complessa e un’ordinanza ben scritta
4 Giugno 2024|1. I fatti di causa
La parte lavoratrice aveva operato nella RAI dal 13 febbraio 1996 al 15 giugno 2001 con compiti di giornalista inviato speciale, dapprima con diversi rapporti a termine e, dal settembre 2001 al 31 agosto 2011, con successivi contratti di collaborazione, tutti con formale inquadramento quale programmista. I contratti erano stati tutti impugnati, ai sensi dell’art. 32 della legge 183/2021, nel gennaio e, successivamente, nel settembre 2011.
Ritenendo l’illegittimità della reiterazione dei rapporti a termine e la natura subordinata dell’intero rapporto, ha poi agito in giudizio chiedendone il riconoscimento con la qualifica di giornalista inviato speciale e il conseguente pagamento delle differenze retributive per l’intero periodo di lavoro.
Il Tribunale di Roma rigettava la sua domanda. La Corte di appello, con sentenza del 17.07.18, riformava la decisione di primo grado accertando, sulla base dell’istruttoria svolta, le reali mansioni espletate e la sussistenza di un rapporto di lavoro giornalistico subordinato a tempo indeterminato con mansioni di inviato a far data dal 13.02.96, «da considerarsi in essere con condanna della società a corrispondere al lavoratore le differenze retributive rispetto a quanto percepito, maturate dal 13 febbraio 1996, con riferimento ai soli periodi lavorati, per stipendi, 13^ mensilità, contingenza, scatti di anzianità, indennità di mensa, superminimo, indennità di funzione ex art. 7 dell’accordo “Rai Usigrai”, indennità integrativa ex art. 3, comma 5, del predetto accordo, ed EDR, oltre interessi e rivalutazione».
In particolare, la Corte di merito riteneva che non costituissero, come si legge nella sentenza impugnata, «elementi preclusivi al riconoscimento di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato tra le parti la dedotta, ad opera del datore, acquiescenza, le anticipate dimissioni del lavoratore da un contratto a termine del 1997 ed una transazione conclusa il 4 ottobre 2001; per il resto, il predetto giudice ha ritenuto dimostrato, sulla base della prova testimoniale espletata (dalla quale era emerso che il dipendente era inserito nell’organizzazione aziendale al pari degli altri giornalisti formalmente dipendenti della “RAI”, realizzava servizi sulla base delle disposizioni ricevute dal direttore, partecipava alle riunioni redazionali, doveva rispettare gli orari giornalieri di redazione, utilizzava per il proprio lavoro un computer messo a disposizione dalla società ed aveva una sua postazione fissa), lo svolgimento, ad opera del lavoratore, delle mansioni di inviato speciale per l’intero periodo lavorato, in regime di subordinazione».
2. La decisione della Corte di Cassazione
Nel suo ricorso per Cassazione la RAI ha svolto dieci motivi e il giornalista ha resistito svolgendo ricorso incidentale basato su due motivi.
I singoli motivi meritano di essere esaminati partitamente.
Secondo il primo motivo proposto da RAI, la Corte di merito aveva violato gli artt. 1372 e 1375 c.c. (art. 360, co. 1, n. 3 cpc), nel ritenere non determinante che il giornalista non avesse impugnato i contratti a termine prima del 2011 in quanto l’inerzia del lavoratore non poteva precludere con riferimento all’accertamento della natura reale del rapporto intercorso, «rilevando solo sull’accertamento della inesistenza di un termine apposto ad un contratto, o a più contratti, a tempo determinato».
Sosteneva la RAI che invece il giudice di merito avrebbe dovuto valorizzare, secondo il canone di buona fede, l’inerzia del lavoratore che aveva determinato un ragionevole affidamento del datore di lavoro circa la sua volontà di non esercitare i diritti poi azionati in causa.
Il motivo, ricondotto nell’ambito del noto istituto del cd. “mutuo consenso”, viene ritenuto infondato poiché la fattispecie invocata presuppone «una chiara e certa volontà consensuale di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo», nella specie non rinvenibile «in un atteggiamento meramente remissivo del lavoratore», dovendo concorrere, come la giurisprudenza della Corte ha più volte chiarito (Cass. 20704/15, 22489/16), «ulteriori e significative circostanze» che devono e che non risultano essere nella specie allegate dal datore di lavoro. La Corte di merito aveva infatti chiarito l’infondatezza dell’eccezione «in difetto di ulteriori elementi univocamente significativi di una condotta acquiescente», così confermando, nella specie, l’insufficienza del mero comportamento inerte del lavoratore. Le conclusioni della sentenza impugnata non contrastano dunque con i parametri invocati dalla ricorrente, andando valutate nel predetto contesto giurisprudenziale di legittimità in cui si inseriscono.
Nel secondo motivo, la RAI sosteneva la nullità della sentenza (art. 360, co. 1, n. 4), assumendo che il giudice di merito, dopo avere affermato che l’inerzia rileva unicamente sull’accertamento dell’inesistenza di un termine apposto al contratto, non abbia poi applicato, senza motivare alcunché, l’istituto del mutuo consenso ai contratti a termine oggetto della prima parte del rapporto intercorso tra le parti.
L’infondatezza del motivo, ad avviso della Corte, si rileva dal fatto che la Corte romana, ben lungi dal contraddirsi ha valorizzato l’ipotesi della frode di legge, su cui si fonda la sentenza, circa la quale la mera inerzia non rileva rispetto alla diversa fattispecie dell’illegittimità del termine per violazione delle ipotesi di legittimità della sua apposizione, questione non dedotta nel giudizio, limitato, come si è visto, al solo riconoscimento della natura subordinata del rapporto e al pagamento delle differenze retributive.
Con il terzo motivo si sosteneva la violazione degli artt. 1372 e 1373 cc (art. 360, co. 1, n. 3) poiché la sentenza impugnata aveva escluso la rilevanza delle dimissioni che il lavoratore aveva presentato nel luglio del 1997 con espresso riferimento al contratto a termine all’epoca in corso, successivamente rivendicandone la natura subordinata.
Si argomenta che il recesso operato dal lavoratore non poteva non influire sull’intero rapporto in essere in quanto tale e precludeva quindi «l’accertamento della vigenza un rapporto a tempo indeterminato per il periodo antecedente». Inoltre, le motivazioni che hanno accompagnato le dimissioni, ancorché riferite al termine apposto, non possono rilevare in assenza di un dedotto vizio del consenso o in altra ragione di invalidità della dichiarazione di recesso dal rapporto.
Il motivo viene rigettato poiché la Corte di merito ha correttamente applicato i parametri normativi che si assumevano violati, avendo ritenuto, nell’ambito della valutazione della eccepita acquiescenza da parte del lavoratore, «che la cessazione anticipata da uno dei rapporti a tempo determinato non valesse – sempre in un’ottica di frode caratterizzata da una molteplicità di contratti formalmente a termine successivi, elusivi della reale natura del rapporto imperniata sulla indeterminatezza di durata – a costituire una censura tale da interrompere la sequela dei contratti a termine», valorizzando anche il fatto che il recesso anticipato rispetto alla scadenza del termine apposto a quel secondo contratto, è avvenuto ad un anno dall’inizio del complessivo rapporto durato per altri cinque anni a termine e proseguito per altri nove con contratti, formalmente di collaborazione.
La questione decisa dalla Corte di appello non afferisce quindi alla valenza estintiva delle dimissioni, bensì all’idoneità di queste a interrompere la successione dei rapporti a termine, considerata la unitarietà degli stessi «ai fini della valutazione della frode». Inoltre, il recesso del lavoratore da un ultimo contratto a termine che si esplica a seguito di una precedete serie ininterrotta, può anche rilevare sul rapporto in corso ma non incide sul diritto a far valere l’illegittimità della successione operata in precedenza, soprattutto per quanto riguarda gli effetti economici che ne derivano, In proposito, la Corte richiama il proprio precedente (Cass. n.17110/2020) dove si è confermata la pronuncia di merito «… che aveva ravvisato, nelle dimissioni rassegnate dal lavoratore, la volontà di interrompere il contratto a termine in corso, e non quello a tempo indeterminato scaturente dalla nullità – non ancora accertata – del termine apposto al contratto di lavoro, desumendola dalla circostanza che, a breve distanza di tempo, il lavoratore aveva stipulato con il medesimo datore di lavoro diversi altri contratti a termine».
Con il quarto motivo, si deduceva la violazione degli artt. 1362, 1372, 1965 e 2113 cc (art. 360, co. 1, n. 3) della parte della sentenza nella quale non si è tenuto conto di una conciliazione intervenuta tra le parti nell’ottobre del 2001, avendo la Corte di merito ritenuto che detta transazione riguardasse solo le spettanze e i diritti relativi al rapporto pregresso (contratti a termine), non incidendo così sull’accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro giornalistico dissimulato. Inoltre, aveva affermato ancora la Corte di merito che, se anche si volesse estendere la rinuncia del lavoratore al contratto di collaborazione all’epoca già in essere, le parti ne avevano definito i termini (attività di programmista) senza descriverne le concrete modalità di svolgimento (evitando così di esplicitare la reale natura del rapporto intercorso), del quale può esserne dunque sempre accertata la sua vera natura.
In tal modo il giudice di appello, si argomenta nel motivo, aveva disatteso la volontà di rinuncia del lavoratore con riguardo a tutta l’attività del lavoratore sino ad allora svolta per la RAI posto che la conciliazione prevedeva anche la rinuncia «a qualsiasi ulteriore diritto o pretesa comunque riferibili, direttamente o indirettamente, all’attività predetta, dovendosi intendere ogni rivendicazione ad essa riferibile, dedotta o deducibile, transatta a tutti gli effetti di legge».
La Corte di legittimità, disattendendo anche questo motivo, ritiene che la sentenza impugnata abbia congruamente e correttamente interpretato la conciliazione nel rispetto dei criteri ermeneutici previsti dal codice.
La transazione, infatti, aveva osservato il giudice di merito, prevedeva «la rinuncia di qualsiasi diritto sui contratti a termine stipulati come programmista regista in cambio della continuazione dei contratti di collaborazione», sicché non era rinvenibile la volontà del lavoratore di transigere l’aspetto relativo alla reale natura del rapporto, non potendo così la conciliazione avere alcuna incidenza «sull’accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro giornalistico dissimulato».
L’oggetto della rinunzia era quindi relativo ad una attività come quella descritta nella premessa della conciliazione e dunque non involgeva il reale svolgimento del rapporto – come poi accertato all’esito dell’azione giudiziale – consistente in un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, avente ad oggetto mansioni giornalistiche, del tutto diverse da quelle indicate nella transazione.
Nella ordinanza in commento si richiama Cass. n.12367/2018, la quale afferma che «qualora, rispetto ad un medesimo rapporto, siano sorte o possano sorgere tra le parti più liti, in relazione a numerose questioni tra loro controverse, l’avere dichiarato, nello stipulare una transazione, di non aver più nulla a pretendere in dipendenza del rapporto, non implica necessariamente che la transazione investa tutte le controversie potenziali o attuali, dal momento che a norma dell’art. 1364 c.c. le espressioni usate nel contratto per quanto generali, riguardano soltanto gli oggetti sui quali le parti si sono proposte di statuire.
Ne consegue che, se il negozio transattivo concerne soltanto alcuna delle stesse, esso non si estende, malgrado l’ampiezza dell’espressione adoperata, a quelle rimaste estranee all’accordo, il cui oggetto va determinato attraverso una valutazione di tutti gli elementi di fatto, con apprezzamento che sfugge al controllo di legittimità qualora sorretto da congrua motivazione».
La Corte precisa, altresì, che la dizione «rinuncia a qualsiasi ulteriore diritto o pretesa, comunque riferibili, direttamente o indirettamente, all’attività predetta» è stata quindi valorizzata nel contesto del documento transattivo, dal quale non era quindi rinvenibile la consapevolezza, al momento della stipula della conciliazione, dei diritti rispetto ai quali, in concreto, operava la rinuncia e, segnatamente, la sussistenza della natura subordinata del rapporto costituitosi sin dall’origine a tempo indeterminato. In tal senso, la Corte rammenta di essersi già pronunciata (cfr. Cass. n.9160/2022) sulla circostanza che si ha valida rinuncia unicamente quando, sulla base dell’analisi del testo dell’atto transattivo (o per la ricorrenza di altre circostanze emerse nel processo), si abbia la certezza che questo involga con consapevolezza diritti dei quali il rinunciante ha piena cognizione e consapevolezza, risultando gli stessi determinati o determinabili e risultando chiaramente la volontà dell’interessato di «abdicarvi o di transigere sui medesimi» (su questi aspetti, si veda SCORCELLI, Con due recenti pronunzie la Corte di Cassazione ritorna sulla questione della rilevanza ai fini della validità delle rinunzie e transazioni di lavoro della generale disciplina civilistica, rivistalabor.it, 9.5.2022).
Così stando le cose, la censura avanzata dalla RAI si converte in una mera contrapposizione della propria tesi con quella affermata nella sentenza di merito, poiché (si cita, fra le tante, Cass. n. 16987/18) di fronte ad una clausola contrattuale sono possibili più interpretazioni, «non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra».
Restava semmai da valutare, vale in questa sede la pena di sottolineare, la illegittimità della conciliazione, che risulta esplicitamente sottoscritta dal lavoratore quale condizione della prosecuzione del rapporto, ma la questione non era evidentemente stata sollevata nel processo.
Per i medesimi motivi pare infondato anche il quinto motivo, con il quale si denunciava la nullità della sentenza (art, 360, co. 1, n. 4) per avere la Corte di appello affermato che la transazione citata riguardasse solo le spettanze connesse al rapporto pregresso costituito dai contratti a termine in quanto era pacifico che, quanto al periodo sino all’ottobre 2001, l’attività lavorativa dell’interessato si era svolta esclusivamente con contratti di tal tipo, così rendendo una motivazione perplessa. Osserva la Corte che il riferimento fatto nella sentenza impugnata concerne unicamente i diritti conseguenti al rapporto come formalizzato nell’atto transattivo, ovvero a termine, risultando esclusi dalla conciliazione quelli nascenti dal rapporto dissimulato, cioè quello a tempo indeterminato, non richiamato nell’atto transattivo.
Il sesto motivo è incentrato sulla violazione dell’art. 32 della l. n.183/2010 in connessione con l’art. 12 preleggi (art. 360, co. 1, n. 3), laddove la Corte di merito ha ritenuto tempestiva la proposizione dell’azione giudiziale operata entro i 270 gg. dalla proposta impugnazione dei contratti a termine e, dunque, ha considerato applicabile la proroga disposta dal cd. Decreto milleproroghe del 21.12.2011, senza considerare che era già stata effettuata un’impugnazione nei termini originariamente previsti prima della proroga legislativa, con conseguente operatività dell’originario termine di decadenza della proposizione del giudizio.
In realtà, come chiarito dalla giurisprudenza della Corte (si cita nell’ordinanza Cass. n.32254/2019, ma ricordiamo che il principio risale a Cass. n.2494/2015), è pacifico che, «privilegiando una interpretazione costituzionalmente orientata del D.L. n. 225 del 2010, art. 1, comma 54, nel testo risultante dalle modifiche apportate dalla Legge di Conversione n. 10 del 2011, la proroga al 31 dicembre 2011 dell’entrata in vigore della disciplina delle decadenze si applica anche a tutti i contratti ai quali tale regime è esteso».
Dunque, il decreto milleproroghe non solo consente di impugnare «i contratti il cui termine sia già scaduto, ma sposta in avanti anche l’efficacia delle impugnative già effettuate», con conseguente prolungamento anche del termine per la proposizione dell’azione giudiziaria (sul punto, v., anche CAVALLARO, L’art. 32 l. n. 183/2010 dopo il “Milleproroghe”, WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”, 169/2013).
Inoltre, va considerato che già la Corte (Cass. n.32254/2019) ha chiarito come, nelle collaborazioni autonome, quando il rapporto cessi ad iniziativa del lavoratore ovvero per scadenza del termine, l’azione per l’accertamento della subordinazione e la riammissione in servizio non è soggetta ad impugnazione – e può essere proposta nel termine prescrizionale – mancando il «recesso del committente» previsto dall’art. 32, comma 3, lett. b, ovvero l’atto che il lavoratore ha interesse a contestare. Anche questo motivo risulta dunque infondato.
Stessa soluzione per il settimo motivo con il quale si denunciava la nullità della sentenza (art. 360, co. 1, n. 4 cpc) per omesso esame dell’eccezione, svolta dalla RAI nelle fasi di merito, circa la mancanza di censure, da parte del lavoratore, in merito ai contratti a termine. Anche tale profilo viene disatteso, posto che l’eccezione era stata considerata nella sentenza di merito e implicitamente ritenuta non rilevante in quanto non erano i singoli rapporti – e i relativi vizi – che venivano in rilevanza in giudizio, ma l’«utilizzo formale dei rapporti termine finalizzato a mascherare la sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato sin dall’origine, in conformità alla domanda come interpretata».
L’ottavo motivo denunciava la violazione degli artt. 2094, in connessione con l’art. 1362 cc. (art. 360, co. 1, n. 3), poiché nella sentenza di merito si era accolta la prospettazione del lavoratore circa la natura subordinata dei rapporti di collaborazione autonoma, senza considerare la «volontà cartolare» dell’accordo tra le parti. Anche tale motivo viene disatteso non ricorrendo un errore nella individuazione e interpretazione, da parte del giudice di merito, dei parametri normativi indicati nella censura, bensì un accertamento di fatto concernente la volontà delle parti, il quale va semmai sindacato ex art. 360, co. 1, n. 5.
In tal senso si richiama, nella ordinanza qui in commento, Cass. n. 22846/22, dove si sottolinea che la natura del rapporto presuppone un esame di fatto da parte del giudice di merito, sicché l’esame della Cassazione «è equiparabile al più generale sindacato sul ricorso al ragionamento presuntivo da parte del giudice di merito» (su cui, in generale, v. MANFREDONIA, I limiti del sindacato della Cassazione sul giudizio di fatto, Giustizia Civile, 31.1.2020).
Di conseguenza, la valutazione ex art. 360, co. 1, n. 3 è ammissibile solo «per ciò che riguarda l’individuazione dei caratteri identificativi del lavoro subordinato, per come tipicizzati dall’art. 2094 cc.», mentre laddove sia finalizzato a censurare la motivazione – «necessariamente presuntiva» – circa la scelta e la valutazione degli elementi di fatto, «altrimenti denominati indici o criteri sussidiari di subordinazione» che hanno portato il giudice a ricondurre il rapporto nell’una o nell’altra tipologia contrattuale, la critica ammissibile è confinata al motivo di cui al n. 5 del co. 1 dell’art. 360.
La Corte richiama anche la Cass. n. 4884/18 dove si afferma che, pur essendo elementi di valutazione necessari sia la durata del rapporto che il «nomen iuris», gli stessi non risultano di per sé soli determinanti (su cui v. SPEZIALE, Indici giurisprudenziali della subordinazione, presunzioni semplici, lavoro autonomo etero-organizzato e co.co.co, lavorodirittieuropa.it, 1/2024), , occorrendo dare «prevalenza alle concrete modalità di svolgimento del rapporto di lavoro»; considerazione che, a maggior ragione, rileva in una vicenda ove è stata dedotta «una simulazione e/o operazione in frode alla legge».
Infondato risulta anche il nono motivo – finalizzato a censurare l’omesso esame di un fatto decisivo e oggetto di discussione (ex art. 360, co. 1, n. 5) – riguarda la mancata considerazione di due pronunce, rese tra la RAI e l’INPGI, che avevano sostanzialmente negato la natura subordinata del rapporto quale giornalista tra il lavoratore in causa e la RAI per due periodi (dal settembre 2001 al maggio 2002 e dal gennaio 2002 al dicembre 2003) dedotti in giudizio.
La censura viene disattesa poiché il rimedio ex art. 360, co. 1 n. 5, non può essere utilizzato per sollecitare il giudice di legittimità ad un riesame della «selezione e valutazione delle prove» poste a base della decisione del giudice di merito, cui spetta (si cita Cass. n.18939/23 e 23153/18, dove si legge:) «la selezione e valutazione delle prove a base della decisione, l’individuazione delle fonti del proprio motivato convincimento, l’assegnazione di prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, la facoltà di escludere, anche attraverso un giudizio implicito, la rilevanza di una prova, senza necessità di esplicitare, per ogni mezzo istruttorio, le ragioni per cui lo ritenga non rilevante o di enunciare specificamente che la controversia può essere decisa senza necessità di ulteriori acquisizioni, non essendo il giudizio di Cassazione strutturato quale terzo grado di merito nel quale ridiscutere gli esiti istruttori espressi nella decisione impugnata, non condivisi, al fine di un loro riesame».
Allo stesso modo, si legge nell’ordinanza, l’apprezzamento del giudice di merito circa la rilevanza e la valutazione delle prove non legali non rientra nello schema di cui al n. 5, co. 1 dell’art. 360, norma che da rilevanza solo all’omesso esame di un fatto, determinante per il giudizio e la cui esistenza è confermata nel testo della sentenza o dagli atti processuali, che è stato oggetto di discussione tra le parti e, neppure, in quello di cui al n. 4, co. 1 dell’art. 360, che concerne un’«anomalia» della motivazione (ex art. 132 cpc), riconducibile alla violazione del minimo costituzionale (principio mutuato dall’art. 11, co. 7 Cost. v., sul punto, CAPPONI, Note brevi sul n. 5 dell’art. 360 c.p.c., giustiziainsieme.it, 10.02.21).
In ogni caso nella specie, osserva il Collegio, la Corte di merito «ha plausibilmente valorizzato, ai fini dell’accertamento circa la natura dell’attività esercitata, una molteplicità di elementi, quali la partecipazione alle riunioni giornaliere di redazione del lavoratore ed il suo rimanere a disposizione del direttore e/o dei giornalisti per l’attività tipica del giornalista “che realizza schede, biografie, ricerche di documenti e immagini, ricognizione delle fonti, rassegna stampa, e si propone diretto intermediario della notizia”, assumendo la responsabilità del servizio svolto in esterna».
L’ultimo motivo concerneva la dedotta violazione o falsa applicazione dell’art. 11, co. 2 del Ccnl giornalistico (art. 360, co. 1, n. 3) che prevede la forma scritta per la sussistenza dell’incarico di inviato speciale. Anche tale motivo risulta infondato, poiché la previsione contrattuale collettiva che prevede la forma scritta in relazione allo svolgimento dell’incarico di inviato speciale, «per il periodo stabilito», non incide sulla possibilità del giudice di accertare in concreto lo svolgimento dell’effettiva attività prestata ai fini de riconoscimento della specifica figura professionale (si cita Cass. n.3460/1996) e, in considerazione del fatto che «in tema di lavoro giornalistico, la qualifica di inviato speciale spetta al giornalista cui venga assegnato come mansione ordinaria, anche se non esclusiva, lo svolgimento di attività giornalistica fuori sede, normalmente allo scopo di seguire determinati avvenimenti od eventi che rientrino nelle sue specifiche competenze, fermo l’obbligo di prestare attività di redazione, sia pure con orario ridotto, in assenza d’impegno in servizi esterni» (così Cass. n.6744/2012).
Parimenti vengono disattesi i due motivi di impugnazione incidentali svolti dalla parte lavoratrice. Il primo (svolto ex art. 360, co. 1, n. 3), riguardava la violazione degli artt. 1217, 1218, 1219 e 1223, co. 2, per il mancato riconoscimento di tutte le retribuzioni spettanti come determinate dal parametro mensile per il giornalista/inviato dal momento della prima o della seconda diffida inviata alla RAI. La Corte rileva che il giudice di merito aveva implicitamente ritenuto l’assenza di un’apposita domanda «a fronte di una richiesta del lavoratore, per come si legge nella sentenza impugnata, limitata al pagamento delle differenze retributive dal 13 febbraio 1996, in ragione del rapporto di lavoro subordinato giornalistico con qualifica di inviato».
Il passo motivazionale non risulta del tutto chiaro, ma la Corte aggiunge che, in ogni caso, l’interpretazione della domanda giudiziale spetta al giudice di merito e l’eventuale erroneità della stessa va denunziata in sede di legittimità unicamente ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 5 in quanto, come si legge in Cass. n.31546/19, «in tema di ricorso per cassazione, l’erronea interpretazione della domande e delle eccezioni non è censurabile ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., perché non pone in discussione il significato della norma ma la sua concreta applicazione operata dal giudice di merito, il cui apprezzamento, al pari di ogni altro giudizio di fatto, può essere esaminato in sede di legittimità soltanto sotto il profilo del vizio di motivazione, ovviamente entro i limiti in cui tale sindacato è ancora consentito dal vigente art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c.».
Il secondo motivo incidentale denunciava infine la violazione o falsa applicazione dell’art. 16 del Ccnl integrativo Usigrai (art. 360, co. 1, n. 3) in relazione al mancato riconoscimento a titolo di «indennità di qualificazione professionale», nonostante fosse stato dimostrato, con prove testimoniali, lo svolgimento delle specifiche mansioni di inviato speciale «esplicatesi nella realizzazione di inchieste in programmi di approfondimento, attraverso “troupe” che venivano coordinate dall’inviato e messe a disposizione dell’azienda, nella partecipazione al montaggio delle immagini e nell’intervento anche in trasmissioni di approfondimento e cronaca), espletando attività integranti quel “quid pluris” erroneamente negato nella sentenza impugnata».
Questo motivo viene ritenuto inammissibile in mancanza della trasposizione della norma contrattuale invocata, sussistendo l’obbligo del giudice di conoscenza dei contratti collettivi pubblici solo stipulati in sede nazionale, restandone esclusi quelli integrativi (Cass. n. 3681/14).
In aggiunta, secondo il Collegio, il ricorrente incidentale si limita a riproporre la sua lettura delle risultanze istruttorie, contrapponendo la propria ricostruzione a quella effettuata dal giudice di merito, che aveva ritenuto di escludere il riconoscimento dell’emolumento non tanto perché riconducibile ad una valutazione discrezionale della RAI, ma per la mancata prova del «”quid pluris” rispetto alla competenza del giornalista interessato».
Ne consegue il rigetto di entrambi i ricorsi, con ogni conseguenza sanzionatoria in tema di condanna al pagamento della sanzione pari al contributo unificato e la compensazione delle spese.
3. Conclusioni
La pronuncia qui commentata si caratterizza per la completezza e chiarezza dell’esposizione dei motivi di ricorso, della descrizione di ogni singolo punto delle critiche svolte dalle parti alla sentenza di merito e dei motivi di rigetto.
Ciascun motivo risulta illustrato in modo compiuto, così come le motivazioni che lo riguardano sono esplicative e rafforzate da continui riferimenti ai precedenti della Corte, così evidenziando la continuità della giurisprudenza su tutti i punti controversi.
Tanto per la forma, che non è poco.
Sotto il profilo processuale l’ordinanza è particolarmente accurata nell’esame della soluzione adottata con riferimento al rigetto dei numerosi motivi proposti, che si incentravano ciascuno su molteplici aspetti e istituti del rapporto di lavoro, evidenziando in modo chiaro i compiti della Cassazione e i limiti della sua cognizione, venendo così a costituire un ulteriore strumento, utile nel non agevole compito di predisposizione delle impugnazioni in sede di legittimità.
Anche sul merito, nel complesso, la decisione pare condivisibile. Nella sua sinteticità è dato comunque cogliere con precisione e chiarezza le motivazioni del rigetto dei motivi che, oltre che essere in continuità con i precedenti ampiamente citati, appaiono indubbiamente condivisibili nelle soluzioni adottate.
Sergio Galleano, avvocato in Milano e Roma
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