Assenza per infortunio sul lavoro e svolgimento di altra attività lavorativa
24 Novembre 2024|La tematica degli infortuni sul lavoro riveste sempre un elevato livello di attenzione in giurisprudenza, sia di merito, sia di legittimità.
Spesso gli eventi infortunistici sono correlati ad altri istituti lavoristici quali ad esempio il licenziamento, come nella fattispecie che ci accingiamo a commentare.
Con l’ordinanza n. 23747 del 04.09.2024, la sezione lavoro della Suprema corte ha infatti scrutinato un caso del genere, confermando la decisione di seconde cure emessa dalla Corte d’appello di Catanzaro.
Una società contestava a un proprio dipendente che, sebbene assente dal lavoro per infortunio, aveva svolto attività lavorativa nel bar di sua proprietà, utilizzando a tal fine, anche la mano infortunata sia per attività leggere come fumare, impiegare il telefono cellulare per attività di risposta alle chiamate e scrittura sullo stesso, salutare con la mano destra stringendo la mano dell’interlocutore, mantenere documenti, ecc., sia per attività lavorative più pesanti, come aprire e chiudere la porta del locale, sollevare sedie, anche con pezzi sovrapposti impilabili, sollevare tavoli, portare zaini e pacchi, aprire e chiudere la tenda parasole, aprire e chiudere la serranda del locale, caricare e scaricare masserizie dall’autovettura.
Successivamente veniva intimato licenziamento per giusta causa, impugnato dinanzi al Tribunale di Cosenza (sia in fase sommaria, sia in sede di opposizione ex lege n. 92/2012) che ne dichiarava la illegittimità per insussistenza del fatto, con ogni conseguenza reintegratoria e risarcitoria.
Sui reclami proposti da entrambe le parti, la Corte di appello di Catanzaro confermava la pronuncia di prime cure, rilevando in parte qua che: a) era onere del datore di lavoro dimostrare che l’attività svolta da dipendente era stata tale da mettere a rischio la sua piena guarigione e, quindi, compromettere l’interesse di esso datore; b) la contestazione non riguardava la gestione di una attività commerciale ma l’avere svolto attività materiali idonee a compromettere la guarigione e, comunque, incompatibili, con lo stato di malattia del lavoratore; c) gli accertamenti erano consistiti nell’apposizione di una telecamera puntata sull’ingresso dell’esercizio commerciale; d) nella maggior parte dei fotogrammi, si vedeva il lavoratore svolgere attività del tutto prive di rilevanza; solo in quattro episodi si notava che lo stesso svolgeva attività di cui alla lettera di contestazione che, però, in quanto svolte a distanza di circa sette mesi dall’infortunio (consistito nella distorsione di due dita della mano) e a pochi giorni dalla fine del periodo di diagnosticata inabilità, non erano tali da incidere o pregiudicare la guarigione; e) restava dunque non provata la illiceità del comportamento.
Affidandolo a tre motivi, la società datrice di lavoro ha proposto ricorso per cassazione; tutti e tre i motivi sono stati dichiarati infondati.
Questi ruotavano essenzialmente sulla violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 cod. civ. e dell’art. 18, co. 4, della legge n. 300/1970, anche in relazione all’art. 2697 cod. civ. per avere la Corte territoriale affermato una carenza assoluta di illiceità disciplinare, da cui aveva fatto discendere una valutazione di insussistenza della giusta causa di recesso, rilevando la compatibilità dell’infortunio con l’attività lavorativa realizzata senza che il lavoratore nulla avesse dedotto in relazione alle prove rappresentate dalle indagini investigative in atti e facendo, quindi, un uso palesemente distorto dei parametri di valutazione della gravità della condotta.
Oltre all’aver la Corte distrettuale erroneamente disposto la tutela reintegratoria pur in presenza di un fatto storico contestato materialmente sussistente.
Nel suo percorso logico-interpretativo l’ordinanza in commento premette che i principi di diritto cui avere riguardo sono rappresentati dai precedenti di legittimità (v. Cass. n. 13063/2022) secondo cui, in materia di licenziamento disciplinare intimato per lo svolgimento di altra attività, lavorativa o extralavorativa, durante l’assenza per malattia del dipendente, grava sul datore di lavoro la prova che la malattia in questione sia simulata ovvero che la detta attività sia potenzialmente idonea a pregiudicare o ritardare il rientro in servizio del dipendente medesimo.
E ciò alla luce del fatto che l’art. 5 della legge n. 604/1966 pone a suo carico l’onere della prova di tutti gli elementi di fatto che integrano la fattispecie che giustifica il licenziamento e, dunque, di tutte le circostanze, oggettive e soggettive, idonee a connotare l’illecito disciplinare contestato e (v. Cass. n. 26496/2018) secondo cui lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente, durante lo stato di malattia, configura la violazione degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà nonché dei doveri generali di correttezza e buona fede, oltre che nell’ipotesi in cui tale attività esterna sia, di per sé, sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, anche nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio ex ante in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio.
Ad avviso del collegio di legittimità le argomentazioni rese nella decisione di seconde cure sono in linea, in punto di diritto, con i suddetti principi in tema di onere della prova, così escludendo ogni asserita violazione di cui all’art. 2697 cod. civ. e, con un accertamento di fatto, argomentato con motivazione esente dai vizi, la Corte territoriale ha rilevato, attraverso l’esame delle prove prodotte dal datore di lavoro (nella specie, l’attività investigativa consistita nell’avere piazzato una videocamera puntata sull’ingresso dell’esercizio commerciale) che, nella maggior parte dei fotogrammi, si notava il lavoratore svolgere attività del tutto prive di rilevanza e solo in quattro episodi era stato visto spostare dall’esterno all’interno del bar prima un tavolino a tre gambe e poi alcune sedie di plastica, prelevare da un’auto parcheggiata proprio di fronte all’ingresso del bar due scatole di cartone portandole all’interno del bar, portare fuori dal bar tre scatole di cartone e sollevare, infine, una sedia sempre di plastica.
Tutte azioni che la Corte territoriale ha considerato insignificanti ai fini di pregiudicare ovvero ritardare la guarigione e il conseguente rientro in servizio, atteso che si trattava di attività svolte a distanza di circa sette mesi dall’infortunio (consistito nella distorsione di due dita della mano) e a pochi giorni dalla fine del periodo di diagnosticata inabilità.
L’ordinanza in commento sottolinea poi il fondamentale principio, già affermato in sede di legittimità (v., ex multis, Cass. n. 5095/2011 e Cass. n. 6498/2012), secondo cui la giusta causa di licenziamento, quale fatto che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto, è una nozione che la legge -allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo- “configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle cosiddette clausole generali) di limitato contenuto, delineante un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e sindacabile in cassazione a condizione che la contestazione non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di incoerenza rispetto agli ‘standards’, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale.”
Orbene, nella fattispecie scrutinata il collegio di legittimità (una volta ritenute inammissibili tutte le doglianze riguardanti la ricostruzione e le modalità della vicenda in fatto, con specifico riferimento alla censura concernente la asserita violazione del parametro normativo di cui all’art. 2119 cod. civ.) ritiene debba essere condiviso l’assunto della Corte territoriale che, proprio sulla base delle risultanze istruttorie acquisite, ha ritenuto irrilevante, per la sua inconsistenza, la condotta posta in essere dal lavoratore in relazione all’addebito di avere pregiudicato e/o ritardato la guarigione ed il rientro in servizio: eventi che non erano stati peraltro dimostrati.
Con riguardo, infine, alla censura mossa con riguardo al rimedio reintegratorio disposto dalla Corte d’appello di Catanzaro, l’ordinanza in commento ricorda che è oramai un principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità (v. Cass. n. 13383/2017; Cass. n. 29062/2017; Cass. n. 3655/2019) quello secondo cui la “insussistenza del fatto contestato” (ex art. 18, co. 4, della legge n. 300/1970, come novellato dall’art. 1, co. 42, lett. b), della legge n. 92/2012), fattispecie cui si applica la tutela reintegratoria cd. attenuata, “comprende sia l’ipotesi del fatto materiale che si riveli insussistente, sia quella del fatto che, pur esistente, non presenti profili di illiceità.”
Luigi Pelliccia, avvocato in Siena e professore a contratto di diritto della sicurezza sociale nell’Università degli Studi di Siena
Visualizza il documento: Cass., ordinanza 4 settembre 2024, n. 23747
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